Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Michele (Ludovico Girardello) ha tredici anni e più o meno tutti i problemi della maggior parte dei suoi coetanei.
Vessato dai bulletti della scuola e ignorato da Stella, la ragazza di cui è segretamente innamorato e che non riesce a smettere di fissare in classe, il ragazzo non eccelle né negli studi né tanto meno nello sport.
C’è però un potere che Michele possiede e che molti tredicenni, in certi frangenti, vorrebbero avere ed è la capacità di diventare invisibile.
La scoperta di questo dono, che di fatto lo rende simile a uno dei supereroi di cui legge avidamente le storie a fumetti, coincide, per il giovane, con l’inizio di un’avventura straordinaria che lo porterà a scontrarsi con una pericolosa organizzazione criminale russa attratta dall’idea di sfruttare quel potere a fini malvagi.
Gabriele Salvatores è senza dubbio uno che ama le sfide.
Appare infatti chiaro anche a un occhio distratto come l’amore per taluni progetti lo abbia portato spesso a soprassedere su valutazioni di natura squisitamente commerciale o sulla pianificazione di un percorso registico più lineare, per cimentarsi liberamente con generi e linguaggi diversi.
Anche laddove sembra aver mancato il bersaglio, come dimostrano alcune cadute (il costosissimo tonfo di Nirvana e l’inspiegabilmente brutto Happy Family ad esempio) ci sono una coerenza e una passione nel suo modo di fare cinema che, almeno in Italia, sono rarissime, che ne fanno un autore molto meno ondivago di quanto non si sia portati a pensare.
Al netto degli scarti stilistici, il leit motiv di tutta la sua filmografia più recente (da Io non ho paura in poi) è infatti sempre lo stesso e coincide con il più classico dei racconti di formazione, declinato però in tutte diverse possibili sfumature.
Dopo l’ambizioso e, per alcuni versi, interlocutorio Educazione siberiana, Salvatores torna ad abbassare la macchina da presa ad altezza bambino (anche qui, come già in Io non ho paura o Come Dio comanda, gli adulti vengono descritti come poco inclini alla comprensione quando non del tutto assenti) e gioca la carta più rischiosa della sua carriera, sperimentando un genere con cui nessun autore italiano si è mai messo finora alla prova, ovvero quello dei supereroi.
E l’intuizione è davvero felice perché gli permette di descrivere il delicato rito di passaggio dall’adolescenza all’età adulta utilizzando gli strumenti tipici del fumetto e trattare così il tema dell’invisibilità sia su un piano esistenziale (la paura di essere inadeguati e la volontà di sparire di fronte all’imbarazzo) che fisico – ché sempre di un supereroe, seppure in miniatura, si tratta – e, allo tempo stesso, fare del sano intrattenimento.
L’estrema delicatezza con cui Salvatores approccia il mondo di questo tenero e introverso adolescente – una via di mezzo tra il Marcus descritto da Nick Hornby in About a Boy e il Charlie del bellissimo Noi siamo infinito – suggerisce la cifra di come il regista non abbia mai perso di vista l’intimismo insistito dei primi lavori (sembrano passate almeno due vite dai tempi di Marrakesh Express e Turnè) neanche quando alle prese con un budget che potrebbe anche alimentare facili peccati di grandeur.
Valga in tal senso, come segno distintivo di continuità col passato, il riuscitissimo utilizzo di due dei suoi attori feticcio di sempre, Valeria Golino e un sempre ottimo Fabrizio Bentivoglio.
E’ talmente sincero, questo film, che gli si perdonano anche i pochi difettucci, come la naïveté di certi effetti speciali (forse anche volutamente) artigianali o l’eccessiva semplicità di snodi narrativi che, per forza di cose, riconducono l’opera nell’area dell’intrattenimento per ragazzi.
Sarebbe infatti inutile e ingeneroso rimarcare quanto Il ragazzo invisibile sia lontano anni luce dai risultati raggiunti negli ultimi anni in casa Marvel, ma il confronto non sussiste affatto dal momento che sembra dichiarare sin da subito di giocare in tutt’altro campionato.
Lo stile, però, quello c’è.
E soprattutto c’è un respiro cinematografico che nei film di Salvatores – anche in quelli meno riusciti – non ha mai latitato, abile com’è a conferire alle storie una dimensione molto più europea che non rigidamente nazionale.
Nel mese in cui escono ben due (non uno, due) cinepanettoni, praticamente è una manna dal cielo.
Voto 7
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