Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Dopo Un viaggio inaspettato (2012) e La desolazione di Smaug (2013), eccoci arrivati al capitolo finale della trilogia de Lo Hobbit, sicuramente il più dilatato e spettacolare. Di certo quello che si distacca maggiormente dalla parte finale della storia raccontata da Tolkien. Non che ad attendere Peter Jackson ci fosse una sfida semplice, data la sua decisione di misurarsi con una battaglia che nel libro non viene neanche narrata, ma a parte qualche caduta (alcuni sono veri e propri capitoboli) nello script, la pellicola compie il suo dovere, chiudendo degnamente la storia di Bilbo Baggins e riagganciandola circolarmente all’incipit del Signore degli Anelli.
L’ultima parte del viaggio, ambientato sessant’anni prima dei fatti del Signore degli anelli, vede l’hobbit Bilbo Baggins (Martin Freeman) e la Compagnia dei Nani ormai a Erebor sulla Montagna solitaria, dove questi ultimi hanno preteso la restituzione delle vaste ricchezze della loro madre patria. Un tesoro che ha scatenato la paranoia del loro re Thorin Scudodiquercia (Richard Armitage), vittima della “malattia del drago”. E tocca proprio a Smaug, il drago a guardia del tesoro della Montagna e unico fiore all’occhiello del secondo capitolo di questa trilogia che qui ritroviamo in gran forma, ad aprire le danze con i primi dieci minuti della pellicola in cui è il protagonista malvagio e assoluto.
Ma torniamo all’ossessione di Thorin, che lo porta in contrasto con gli Elfi, capitanati da re Thranduil (Lee Pace), padre di Legolas (Orlando Bloom) e con la popolazione di Pontelagolungo, guidata da Bard L’arciere (Luke Evans). Presto Nani, Elfi e Umani si troveranno ad affrontare un pericolo ancora più temibile di Smaug: l’orda di Orchi inviata da Sauron, affrontato da Gandalf (Ian McKellen), Galadriel (Cate Blanchett) ed Elrond (Hugo Weaving). E uniranno le forze nell’epica battaglia per la conquista della Montagna.
Il primo aspetto che salta agli occhi ne La battaglia delle cinque armate è l’inversione di tendenza operata da Jackson rispetto ai due film precedenti: se nei primi capitoli della trilogia infatti il regista neozelandese si era soffermato sulla narrazione e, aveva lasciato un po’ troppo spazio all’introspezione dei personaggi, qui molla le briglie e punta tutto sulla spettacolarità delle battaglie e delle scene corali. La componente action qui è la vera protagonista, con un’accuratezza di dettagli che rasenta la maniacalità. Osservando le varie fasi degli scontri, si coglie la cura che c’è dietro i vari stili di combattimento che contraddistinguono ciascuna razza: gli algidi Elfi, gli irruenti Nani, i brutali Orchi visti dall’occhio demiurgico di Jackson che frequentemente ricorre a riprese dall’alto per conferire maestosità alle scene, sono un vero spettacolo. Di contro, l’austerità con cui Tolkien ha sempre descritto i legami sentimentali tra i personaggi, nel film viene meno e le vicende di caratteri estranei al racconto originale si chiudono (in particolare il triangolo tra Legolas, l’elfa Tauriel e il nano Kili) con una dose eccessiva di romanticismo e inutili smancerie che non sarebbero piaciute a Tolkien, soprattutto perché alcuni di questi personaggi non probvengono dalle pagine del suo racconto.
A incombere sul film, però, c’è soprattutto il pesante lavoro di taglio, che fa emergere le forzature di un’operazione studiata a tavolino (Lo Hobbit è stato girato tutto insieme e inizialmente doveva essere diviso in soli due capitoli e non in tre) per cercare di “allungare il brodo” senza che ce ne fosse un reale bisogno, se non per motivi di marketing. Con 17 Oscar vinti e un incasso globale di tre miliardi di dollari dalla trilogia del Signore degli Anelli e i due miliardi raggiunti dai primi due film de Lo Hobbit, è lecito aspettarsi almeno un altro miliardo per La battaglia delle cinque armate. Dal canto suo, Peter Jackson si dice convinto che non vedremo altri suoi film tratti dalle opere di Tolkien per un motivo strettamente legale: Il Signore degli Anelli e Lo Hobbit sono gli unici due libri dello scrittore dei quali sono stati venduti i diritti e senza la collaborazione della Tolkien Estate (che amministra i diritti dell’autore) non ci saranno altri film”. Quindi siamo davvero alla fine dei giochi, ed è giusto così.
Nonostante chi scrive non sia mai stata una grande fan della deriva fantasy intrapresa da Jackson, preferendo di gran lunga le sue incursioni nel cinema di genere, questa volta deve ammettere che la linea emotiva di valutazione ha prevalso su quella puramente obiettiva e che la pellicola che rappresenta il congedo del regista dalla Terra di Mezzo ha un enorme merito, nonostante i tanti difetti: quello di essere il capitolo più “di pancia”, in cui si scorge tutta la passione e l’impegno che Jackson ha riversato in questi anni nei suoi ambiziosi progetti traspositivi, spingendosi tecnologicamente sempre più in là e sperimentando l’inverosimile. Esaltante e coinvolgente in alcune sue parti, piuttosto indigeribile in altre, tecnicamente ed emotivamente La battaglia delle cinque armate vince e convince.
Voto 7
Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.
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