Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Mina (Alba Rohrwacher) e Jude (Adam Driver) si incontrano e si innamorano a New York, mentre sono bloccati nella toilette di un ristorante cinese e, da quel giorno, praticamente non si lasciano più.
Pur conoscendosi poco, i due bruciano le tappe di una relazione che li porta prima ad andare a vivere insieme, poi a sposarsi e infine a mettere al mondo un figlio.
La nascita del bambino fa però emergere in Mina una strana ossessione per il concetto di purezza che la spinge a chiudersi in sé stessa e a nutrire il piccolo solo con (pochissime) verdure coltivate nel proprio orto, a limitare al minimo le esposizioni con l’ambiente esterno e a non prestare alcuna fiducia nella medicina tradizionale.
Adam, sulle prime remissivo rispetto alle fobie della moglie, inizia a preoccuparsi quando si rende conto del graduale deperimento fisico del figlio.
Consulta quindi di nascosto un pediatra che lo mette in guardia sulla gravità della situazione e lo informa dei rischi a cui Mina sottopone il bambino continuando ad alimentarlo in quel modo.
Hungry Hearts è l’ultimo dei tre rappresentanti italiani In Concorso al Festival di Venezia dello scorso anno ad approdare in sala oltre che l’unico ad aver portato a casa dei premi (la più che meritata Coppa Volpi a entrambi i protagonisti) e, come già Anime nere di Munzi e Il giovane favoloso di Martone, rappresenta un altro segnale importante per una lucida valutazione dello stato di salute del cinema italiano.
Saverio Costanzo, autore evidentemente poco incline alle scelte facili, trae libera ispirazione dal romanzo Il bambino indaco di Marco Franzoso e fa il percorso esattamente opposto a quello intrapreso nel bellissimo e sottovalutato La solitudine dei numeri primi, uno di quei rari casi di film superiore al libro da cui è tratto. Se in quell’occasione, infatti, il regista romano trasformava una storia di disagio esistenziale in un horror stilizzatissimo, qui prende il peggiore degli incubi polanskiani e gli conferisce un taglio minimale e intimista, da film da camera, cercando in tutti i modi di evitare i facili picchi di tensione a cui altri registi, forse con maggiore astuzia ma con molto meno stile, avrebbero fatto ricorso a man bassa.
Ecco quindi che Mina e Jude vengono sistematicamente costretti in spazi angusti – da qui l’uso insistito del grandangolo – e seguiti con la camera a mano nel loro scivolare da un innamoramento descritto attraverso un incipit degno delle migliori commedie romantiche (la prima sequenza, in cui si presentano mentre lui sta avendo un attacco di dissenteria, è davvero pregevole) in una sorta di orrore domestico scandito dai ritmi lenti della quotidianità.
Non si commetta però l’errore, sulla scorta della sola sinossi, di scambiare Hungry Hearts per riflessione sugli OGM et similia, ché il discorso qui è molto più complesso.
E’ chiaro fin da subito infatti come a Costanzo non interessi tanto costruire una riflessione sull’essere genitori oggi, quanto un lucido e, a tratti, spietato apologo sulle derive autarchiche che spesso hanno inizio proprio dietro la quiete apparente dell’alveo domestico.
Una sorta di Rosemary’s Baby – indipendentemente dall’assonanza estetica tra la Rohrwacher e Mia Farrow, Polanski è un vero e proprio nume tutelare per questo film – in cui la protagonista non partorisce più un demonio, perché i demoni li tiene tutti dentro di sé.
L’intuizione di ambientare la storia a New York, metropoli ricca di fascino ma anche socialmente atomizzante, è in tale ottica esemplare perché amplifica il senso di estraneità di Mina al circostante e allo stesso tempo agisce, attraverso gli sparuti scorci urbani mostrati dalla macchina da presa, da ideale contrappunto alla claustrofobia dell’appartamento in cui il film si svolge quasi per intero.
Chiaro che un’opera del genere riesca a funzionare, al netto della sua splendida regia, anche e soprattutto grazie agli interpreti e a come reggono e assecondano i primissimi piani a cui li ha sottoposti Costanzo. Felicissima la scelta di Adam Driver (Frances Ha, A proposito di Davis) come protagonista maschile, giusto un attimo prima che Star Wars: Episodio VII – Il Risveglio della Forza faccia di lui una star irraggiungibile.
Hungry Hearts, pur essendo tecnicamente dello scorso anno, è dunque il primo film imperdibile del 2015.
Il fatto che sia anche un film italiano non può che aumentarne il piacere.
Voto 8
Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.
Dopo il trionfo veneziano arriva nelle sale l’intenso dramma diretto da Saverio Costanzo con Adam Driver e Alba Rohrwacher.
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