The Iceman

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Richard Kuklinski (Michael Shannon) è un uomo timido e taciturno, con due vite agli antipodi che riesce a tenere perfettamente distinte.
Per sua moglie Debbie (Winona Ryder) è un mediatore finanziario in carriera e il padre amorevole delle loro due figlie.
Per il boss mafioso Roy Demeo (Ray Liotta), Richard è invece un killer freddo e spietato a cui affidare il compito di ripulire le strade da chiunque osi metterglisi contro.
Almeno fino a quando non commette un errore.
Quell’unico errore in seguito al quale Demeo decide di punirlo dispensandolo dal suo incarico.
Umiliato e improvvisamente privo della sua principale fonte di reddito, Richard decide quindi di mettersi in proprio e di continuare a uccidere, al soldo del miglior offerente di turno, senza considerare i rischi che corre andando a pestare i piedi ai più pericolosi boss locali, compreso il suo terribile e vendicativo ex “datore di lavoro”.



Strane le vie della distribuzione italiana se questo The Iceman, presentato due anni fa al Festival di Venezia, arriva nelle nostre sale solo adesso.
Ispirandosi a fatti realmente accaduti e già raccontati sia in un libro (“The Iceman: The True Story of a Cold-Blodeed Killer” di Anthony Bruno) che in un agghiacciante documentario TV (“The Iceman Tapes: Conversations with a Killer“, composto da alcune interviste concesse dallo stesso Kuklinski in carcere), il regista di origine israeliana Ariel Vromen costruisce un film, per molti versi, più interessante sulla carta che non sullo schermo.
Se da un lato infatti risulta felice l’idea di sviluppare la parabola criminale di Kuklinski (oltre cento omicidi in vent’anni di attività) come un amarissimo apologo sociale sulla crisi – economica prima ancora che valoriale – mascherato da gangster movie, la pellicola finisce poi con il non sviluppare appieno né la sua componente realistica né tanto meno quella di genere.
Colpa di una sceneggiatura eccessivamente didascalica con una serie di salti temporali troppo secchi a cui però non corrisponde un’adeguata crescita di un personaggio con un tasso di complessità drammaturgica tanto elevato e di uno stile registico distaccato e freddo, ma mai davvero gelido come le vicende narrate richiederebbero.

A salvare la barca provvede un Michael Shannon straordinario (il film sostanzialmente lo fa lui) che va così ad aggiungere al proprio curriculum un ulteriore ruolo borderline sintetizzando, in qualche modo, quanto già fatto in passato con il folle protagonista di My Son, My Son, What Have Ye Done e il padre paranoico del bellissimo e sottovalutato Take Shelter di Jeff Nichols.
Shannon costruisce il suo Richard Kuklinski soprattutto con gli occhi, attraverso i quali lo spettatore è chiamato a scorgere tutte le sfumature di un’inquietudine immensa e, a tratti, quasi a empatizzare con questo mostro capace di gesti di inspiegabile affetto all’interno delle mura domestiche.
Completano il bel cast Ray Liotta, che ormai i ruoli da criminale può recitarli anche con la mano sinistra e che, già con la sua sola presenza, regala una piacevole allure scorsesiana all’opera, Winona Ryder che ricorda a tutti perché, negli anni novanta, era una delle attrici più ricercate a Hollywood e Chris “Capitan America” Evans.
Spiace quindi, anche in virtù dei nomi coinvolti, che il film rimanga lì a metà del guado – facendosi anche vedere, per carità – ma senza mai riuscire a diventare qualcosa di più di un tutto sommato innocuo gangster movie di second’ordine.

Voto 5,5

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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