Selma – La strada per la libertà

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Nella primavera del 1965 Martin Luther King (David Oyelowo) organizza una marcia per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla spinosa questione del diritto al voto alle persone di colore, di fatto già esistente, ma reso inapplicabile da una serie di restrizioni burocratiche prive di senso.
La sede scelta per la partenza è la città di Selma, in Alabama, culla del razzismo più profondo e delle maggiori resistenze dei bianchi all’estensione dei diritti civili fondamentali.
La marcia, pacifica nelle intenzioni, scatena prima un minaccioso clima di malcontento nella popolazione locale fomentata dal Senatore Wallace (Tim Roth) e poi una repressione di tale violenza da parte delle forze dell’ordine da dover essere interrotta sul nascere.
Nemmeno l’accorato appello del Reverendo King al Presidente Johnson (Tom Wilkinson) sembra sortire alcun effetto in termini di distensione degli animi.
Di fronte alle riprese televisive che documentano i soprusi e gli attacchi subiti dai manifestanti, però, anche la pigra coscienza collettiva sembra risvegliarsi.

L’aggettivo “necessario” – abusato e, il più delle volte, fuori luogo – adoperato per denotare film particolarmente inclini all’analisi del sociale, trova per una volta in Selma una sua piena ragione d’utilizzo.
Questo perché, oltre ad essere un film pienamente riuscito sin dalla scelta di affidarne la regia ad un’autrice aliena alle logiche del mainstream (l’afroamericana Ava DuVernay, premiata come miglior regista al Sundance 2012 per il bel Middle of Nowhere) e nonostante la supervisione affidata ad una Oprah Winfrey produttrice, Selma si rivela infatti un’opera utile soprattutto ad approfondire la conoscenza di un personaggio come Martin Luther King, troppo spesso beatificato in modo unidimensionale, ma quasi mai rappresentato nella sua declinazione più umana e privata.
La prima cosa che salta all’occhio nel Luther King della DuVernay è appunto quanto questi sia lontano dal santino dell’arcinoto “I have a dream” e ci venga invece mostrato come un uomo estremamente complesso e combattuto la cui immagine, fondata principalmente sulla sua solida veemenza comunicativa, vediamo spesso increspata da una serie di profondi dubbi sui possibili modi con cui spingere la propria gente alla protesta.
Esemplificativi di questo approccio al personaggio sono, ad esempio, sia il modo in cui viene esplicitato il dicotomico rapporto tra King e Malcolm X, che la regista ha la furbizia di risolvere in pochi ma ben delineati passaggi, sia le sequenze che lo mostrano fallibile all’interno delle mura domestiche, come un qualsiasi marito fedifrago, in totale antitesi con l’irreprensibilità della sua immagine pubblica.
Non è poca cosa, soprattutto all’interno di un film che poteva tranquillamente essere il classico apologo pulitino e buonista a uso e consumo di democratici in cerca di facili morali edificanti.
Questo per dire che qui non siamo affatto dalle parti dell’insopportabile The Butler di Lee Daniels.

La piena riuscita di Selma non è però solo merito di una sceneggiatura straordinariamente abile nell’aggirare molte delle insidiose pastoie tipiche della retorica in genere legata a certe tematiche.
Ava DuVernay dirige in totale accordo con l’asciuttezza dello script, spogliando di eccessiva enfasi un evento così fortemente connotato e prendendosi i suoi tempi, senza alcuna fretta di raggiungere un climax emotivo che, paradossalmente, arriva solo con le immagini di repertorio della vera marcia che portò gli attivisti da Selma a Montgomery poste in calce al film.
Già dal potentissimo incipit in cui si assiste all’esplosione di un edificio vista dall’interno (con le ragazzine che un attimo parlano delle pettinature più in voga quell’anno e, l’attimo dopo, semplicemente non ci sono più) appare piuttosto chiaro come l’autrice prediliga un punto di vista intimo che, pur non uscendo mai dai binari di un cinema fieramente classico, non mira alla fredda cronistoria degli eventi, preferendo stringere l’obiettivo della macchina da presa quanto più possibile sui singoli personaggi che hanno reso possibili quegli eventi diventando così degli eroi, anche loro malgrado.
Trattandosi di una pelliola totalmente incentrata sulla questione razziale, nulla viene risparmiato allo spettatore in termini di violenza fisica e la scena della repressione dei manifestanti è, in tal senso, particolarmente cruda. Un vero pugno nello stomaco.
Un plauso infine va rivolto al cast, eterogeneo e privo di elementi deboli, con due punte di diamante rappresentate da Tim Roth, raramente così sgradevole, che stipa il suo Senatore Wallace di tutta l’avversione per i principi fondamentali della democrazia e la stolida ignoranza redneck che all’epoca albergavano negli Stati del profondo Sud e dall’eccezionale David Oyelowo.
La capacità di quest’ultimo di modulare i differenti registri e gamme espressive di Martin Luther King (soprattutto durante i comizi, veri e propri crescendo emotivi) è magistrale e la sua esclusione dalle nomination all’Oscar come miglior attore protagonista rappresenta forse la svista più grave tra quelle perpetrate quest’anno dai membri dell’Academy.
Specie se – è improbabile ma con l’aria che tira non mi stupirei affatto – la statuetta dovesse poi finire tra le mani di Bradley “American Sniper” Cooper.

Voto: 7,5

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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