Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
QUI le interviste a Paul Thomas Anderson e Joaquin Phoenix per Vizio di Forma
California, primi anni Settanta.
A un occhio leggermente distratto, Larry “Doc” Sportello (Joaquin Phoenix) potrebbe anche apparire come uno dei tanti hippie fancazzisti e stralunati che gravitano attorno a Gordita Beach e, per molti versi, non a torto.
Doc infatti è, a tutti gli effetti, un hippie fancazzista e stralunato di Gordita Beach.
Ma questo non gli impedisce di svolgere, come meglio gli riesce, anche il mestiere di investigatore privato.
Quando Shasta, un suo vecchio amore, torna da un passato che Doc non ha alcuna voglia di ricordare e gli chiede aiuto, l’uomo si trova coinvolto in un intrigo in piena regola, con tanto di femme fatale, musicisti tossici, miliardari con troppi segreti da nascondere e perfino un’associazione di dentisti assassini nota come Zanna d’Oro, che è però anche il nome di un sedicente cartello indocinese dedito al traffico di eroina.
Come se tutto ciò non bastasse, l’indagine è resa ancora più complessa dalle continue intromissioni di “Bigfoot” Bjornsen (Josh Brolin), ispettore della Omicidi violento e fascistoide, e dai suoi tentativi di incastrare Doc con un’assurda accusa di omicidio.
A “soli” due anni dall’eccezionale (e forse non ancora del tutto compreso) The Master, Paul Thomas Anderson abbandona per un attimo il rigore visivo quasi luterano che informava sia il succitato capolavoro che il precedente Il Petroliere e riabbraccia la forma del racconto corale, persa di vista ormai dai tempi di Magnolia.
Il risultato è un film di straordinario impatto, un’orgia visiva che se, sulle prime stordisce e quasi ubriaca, alla lunga conquista.
Sono infatti svariati i rischi che Anderson si prende con questa pellicola, primo tra tutti quello di trasferire per la prima volta in immagini un libro di Thomas Pynchon, forse lo scrittore più difficilmente filmabile di sempre, ma la scommessa è vinta sotto tutti i molteplici punti di vista con i quali è possibile leggere e interpretare questo autentico caleidoscopio narrativo.
Troppo spesso infatti si elogia l’autore di Boogie Nights esclusivamente per le sue impressionanti capacità tecniche con la macchina da presa, quasi dimenticando quanto sia bravo come sceneggiatore, laddove il “bravo”, per uno che ha scritto un film come Magnolia a soli ventinove anni, è da intendersi come un simpatico eufemismo.
In Vizio di forma P.T. Anderson finge di asciugare il denso magma letterario pynchoniano fino a sintetizzarne un’unica linea narrativa (di fatto il più classico dei canovacci noir) per poi procedere per accumulo, portando quella stessa linea fino ad un estremo parodico del genere, in un’operazione non dissimile da quanto fatto anni fa dai Coen nel loro anarchico e adorabile remake sotto acido de Il grande sonno, Il grande Lebowski.
Qui invece siamo più dalle parti de Il lungo addio – insomma, sempre di Marlowe si tratta – anche se è chiaro fin da subito come le mille possibili diramazioni dell’intricatissimo plot non interessino in maniera particolare un Anderson – lo stesso regista, nell’esaustiva chiacchierata fatta con noi poco meno di un mese fa, citava Chandler dicendo che “l’obiettivo primario di un noir è di fare in modo che l’eroe vada per strada e flirti con il maggior numero possibile di donne” – evidentemente molto più attratto dalla possibilità di descrivere quel particolare periodo storico, figlio del violento impatto tra i fugaci sogni del Flower Power sessantottino e il violento risveglio di Altamont (il tristemente noto concerto degli Stones in cui un loro fan perse la vita per mano di alcuni Hell’s Angels inspiegabilmente ingaggiati come servizio d’ordine) e gli efferati omicidi della Family di Charles Manson, il cui spettro si intravede spesso tra le pieghe del racconto, e la malinconia per tutte quelle promesse non mantenute.
“Doc” è appunto la rappresentazione fisica dello spaesamento di chi si è attardato, forse più del dovuto, in un American Dream fatto di controcultura e droghe lisergiche e non ha visto arrivare (o non ha voluto vedere) le nubi che, all’orizzonte, lasciavano presagire la morte di quello stesso sogno.
In tal senso la scelta di Joaquin Phoenix per interpretare questo romantico loser, a metà strada tra il Drugo e un giovane Neil Young, risulta perfetta.
Phoenix asseconda infatti tutte le numerose – e in alcuni momenti anche violente – virate di genere presenti nel film con la generosità che da sempre contraddistingue il suo modo di essere attore, con alcuni picchi di comicità fisica che però non vanno mai ad oscurare la malinconia dello sguardo.
Vizio di forma è stato, insieme a Interstellar, scandalosamente ignorato nella corsa agli Oscar anche se, in fondo, questo non ha sorpreso nessuno, forse nemmeno il suo stesso autore.
Troppo storto e poco etichettabile (nonostante un cast a dir poco eccezionale) per piacere a quelli della Academy, questo film è altro.
E’ uno di quei capolavori meno immediati – e che nessuno si azzardi a parlare di un “Anderson minore” – che poi, con gli anni, crescono fino a guadagnarsi lo status di cult assoluto.
Non ho alcun dubbio che sarà così.
Voto 8,5
Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.
Il viaggio di Paul Thomas Anderson nella controcultura anni Settanta è un noir magnetico, corale e allucinato.
Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
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