Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Tra la fresca acclamazione di Birdman e delle sue frecciate all’establishment, il destino instabile e calcolato con un certo cinismo del franchise di The Amazing Spider-man e le ultime, avvelenate rimostranze di James Gunn verso un’Academy a suo dire prevenuta nei riguardi dell’immaginario supereroistico, viene forse da pensare che l’universo cinecomic stia cominciando a mostrare la corda e a prendere esageratamente sul serio la propria funzione nel panorama cinematografico contemporaneo. A fronte dell’invasione DC e Marvel pianificata nei minimi dettagli da qui al 2020, arriva nelle sale italiane a far tirare un po’ il fiato e ad alleggerire la situazione da schiere di giustizieri in tutina e da genesi ultranote il britannico Kingsman – Secret Service, adattamento della semiomonima miniserie venuta ad aggiungersi nel 2012, non senza ridondanze e manierismi, alla dimensione ultra-violenta e degenerata di Mark Millar, già istituzionalizzatasi con la pubblicazione di Wanted e di Kick-Ass.
Al netto di trasposizioni su pellicola non esattamente felici e dell’inevitabile derivatività del materiale di partenza nei confronti dei due predecessori, era lecito ridimensionare le aspettative e prefigurarsi solo una ripetizione programmatica delle ossessioni esagitate e dei feticci cruenti del Millarworld, e invece i sei albi della Icon Comics, opportunamente riscritti e ampliati, si traducono in una versione per il grande schermo tanto arrischiata quanto riuscita: il grosso del merito va al coinvolgimento del regista Matthew Vaughn e al suo profilo irrobustitosi, dopo gli esordi promettenti di The Pusher e, soprattutto, del fantasy gaimaniano Stardust, da un lustro abbondante di palestra fumettistica scandita dalla partecipazione, ora allo script, ora dietro la cinepresa, ora in cabina di produzione, del dittico del già citato Kick-Ass e della recente bilogia di X-Men.
Laddove il russo Timur Bekmambetov aveva banalizzato e stravolto una sorgente già modesta e triviale come Wanted, Vaughn, complice la sua veste di co-autore della fonte cartacea, opta per la discreta fedeltà al soggetto e per l’esasperazione insistita dello sviluppo, trasformando l’irrilevante succedaneo di un controverso titolo di culto nel punto di non ritorno di una particolare tipologia di entertainment e di un’intera categoria, enfatizzando con ponderose dosi di (auto)ironia e di parossismo le componenti base del modello spionistico mainstream, giunto a irreversibile maturazione con il trittico bondiano di Daniel Craig, di cui Kingsman si fa beffe con spirito iconoclasta buttando tutto rumorosamente in caciara.
Per raccontare il reclutamento, il noviziato e il servizio del diciottenne sottoproletario Eggsy (Taron Egerton) presso un’arcana agenzia di spionaggio agli ordini di Sua Maestà, Vaughn e la consueta co-sceneggiatrice Jane Goldman spingono l’acceleratore senza ritegno sul cattivo gusto e sull’eccesso, producendosi in momenti iperbolici fino all’assurdo (l’ottima sequenza dell’esercitazione aerea, degna di Point Break, e la letteralmente stratosferica missione spaziale), in pozzanghere di becerume nelle quali sguazzare in totale dissennatezza fra complotti internazionali improbabili, tentazioni splatter e grevità inenarrabili (indimenticabile il fuoco d’artificio finale, fra teste che deflagrano e principesse ninfomani), e in caratterizzazioni ipermacchiettistiche una più divertente (e divertita) dell’altra, dall’azzimato Galahad di Colin Firth (finalmente valorizzato in un personaggio brillante) al Merlino di Mark Strong (una declinazione in assetto da battaglia del Q flemingiano), passando per i piccoli ruoli di Michael Caine (l’anziano leader Artù) e di un ritrovato, sfattissimo Mark Hamill – peccato, però, non poterlo vedere interpretare se stesso, come vorrebbe il plot della graphic novel -, fino a un esilarante Samuel L. Jackson con zeppola e berrettino nei panni di uno schizzinoso villain a metà fra Goldfinger e Steve Jobs.
Come in molti casi analoghi, funziona meglio la prima parte, fra dialoghi dissacranti, sottili notazioni di costume (in fin dei conti, Eggsy è un virus plebeo in un organismo storicamente aristocratico) ed esplosioni action puntuali ma isolate; a mano a mano che si prosegue nella vicenda e che l’azione prevale sulla quiete, l’accumulo diventa inevitabilmente bulimico e a tratti pesante (il quasi-pianosequenza della sparatoria in chiesa, altra significativa variazione, ancorché spassosa, sfocia nell’autocompiacimento, il frequente ricorso al ralenti alla lunga stanca). Eppure la coscienziosa e ricercata sovrabbondanza dell’insieme è ciò che consente all’anomalia di Kingsman di fare la differenza e di incarnare una provvida, giocosa alternativa alla tendenza forzatamente austera presa oggi dal cinema di genere, di presentarsi, insomma, senza pretesa alcuna come un divertissement azzardato e non per tutti i gusti, ma non per questo sciatto o sguaiato.
A volte ci si può concedere una vacanza dai cineclub per spegnere consapevolmente il cervello per qualche ora: un film come Kingsman – Secret Service, purché non ce ne si vergogni troppo, serve anche a questo.
Voto 6.5
Colin Firth e Taron Egerton alla corte di Matthew Vaughn nel film di spie che mancava, tra sagace ironia ed eleganza british.
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