Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Nel 2015 L’inferno è in pieno caos.
Troppi peccatori di ultima generazione e troppo poco spazio per farceli stare tutti.
Senza considerare il fatto che le vecchie divisioni per gironi sono ormai diventate obsolete.
A quale girone andrebbe destinato, ad esempio, un hacker? E uno stalker?
Satana, in accordo con un Dio particolarmente dedito ad alcol e psicofarmaci, decide quindi di delegare il solito Dante al lavoro sporco e di inviarlo ventiquattro ore sulla terra per avere un quadro più chiaro delle moderne declinazioni del peccato.
Il compito si rivelerà più arduo del previsto e il sommo Vate si troverà di fronte ad una fiera delle atrocità contemporanee che va dagli scavalcatori di file al supermercato ai maniaci dell’ordine e della pulizia.
Il terzo film della coppia Biggio/Mandelli presenta non pochi problemi in sede di analisi, a seconda dell’angolazione dalla quale si scelga di partire.
Se, ad esempio, dovessimo interrogarci sulla semplice rispondenza dell’opera allo scopo che evidentemente si prefigge – ossia il far ridere – La solita commedia – Inferno potrebbe anche dirsi un film riuscito. La costruzione a episodi permette infatti alla coppia di procedere per tentativi successivi e, già solo per la semplice legge dei grandi numeri, è piuttosto difficile che nessuno dei tanti segmenti narrativi colga nel segno.
Poi, certo, c’è anche un discorso legato alla coerenza narrativa e, in quest’ottica, la semplice cornice che dovrebbe legare insieme il tutto e che vede Dante inorridire ripetutamente dinanzi all’odierno squallore umano mostrato nei singoli sketch, dopo un po’, mostra la corda.
L’inversione di senso del viaggio dantesco che, di fatto, rende la terra più infernale dell’inferno stesso, per quanto interessante, alla lunga infatti stanca e rende evidente come gli sforzi di Biggio e Mandelli in sede di scrittura si siano concentrati più nel rimpolpare il loro repertorio di nuovi soliti idioti (già in origine una banalizzazione anni dieci de I mostri di Dino Risi) che non nel tentativo di evolvere il loro stile.
Da questo punto di vista, La solita commedia – Inferno soffre dello stesso problema di fondo che gravava su Italiano medio di Maccio Capatonda e che non gli ha permesso di affrancarsi pienamente dalla sua matrice televisiva.
Solo che, se in Italiano medio, si evinceva se non altro uno sforzo (riuscito solo in parte) di adattare le proprie esigenze narrative al mezzo cinematografico, qui la pigra reiterazione di gag, senza dubbio simpatiche ma già abbondantemente viste, sembra più il frutto di una scelta comoda e, se vogliamo, un po’ paracula.
Non è tanto questione di pura semantica quanto piuttosto di una mancata comprensione dei limiti di un mezzo (quello televisivo) che, una volta superati, hanno bisogno di nuova linfa per generare contenuti validi, anche se solo a fini di intrattenimento.
Biggio e Mandelli hanno dalla loro il pregio della simpatia (più Mandelli che non Biggio) e di una sana scorrettezza, figlia naturale di una generazione che ai cinepanettoni preferisce Little Britain o The Office e questo un po’ li salva.
Ciò che manca semmai è una cattiveria che faccia realmente male e vada a colpire gli obiettivi giusti, stimolando anche un minimo di riflessione piuttosto che ricercare il paradosso facile facile che, giocoforza, qualche risata la strappa sempre.
Per ora in Italia gli unici a farlo restano Torre, Ciarrapico e Vendruscolo e l’insuccesso del loro ultimo Ogni maledetto Natale lo testimonia.
Se poi ciò che si desidera è solo e soltanto ridere, tranquilli, che qui si ride.
Voto 5
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