Into the Woods

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Se con l’approccio tradizionalista di Cenerentola ha preso definitivamente il via una fase di autoreferenziale restaurazione del canone che abbiamo battezzato Neoclassicismo Disneyano, restava solamente da capire quale capitolo della produzione degli studi di Burbank avesse decretato la conclusione di quella stagione sperimentale e innovatrice che, dal recupero del 2D de La principessa e il ranocchio alla crisi di identità di oggi, poteva rappresentare dopo i fasti degli anni Novanta il suo secondo periodo rinascimentale.



Con la trasposizione del colosso broadwayiano Into the Woods si concretizza quindi la transizione fra l’ottica postmoderna degli ultimi lungometraggi d’animazione e il ritorno alle origini sancito dai recentissimi o imminenti progetti live-action, un momento di passaggio sospeso fra il revival e la sua radicale rielaborazione, una sorta di contraltare tombale dei gioiosi, vitali aggiornamenti che costituivano quel piccolo manifesto che fu l’ibrido dimenticato Come d’incanto.
La Disney si guarda di nuovo allo specchio, dunque, ma con un’autocoscienza e uno scavo nella sua iconografia che nella pellicola di Kenneth Branagh si vedevano sostituiti da un indolente e rassicurante calco della convenzione fine soltanto a se stesso. Se la tendenza dominante era quella di preferire l’anima morbida e conciliante della componente perraultiana, in Into the Woods trionfa piuttosto il timbro cruento e spietato dell’universo dei fratelli Grimm, trascinando in una condizione umana condivisa a base di egoismo e di rassegnazione tanto i buoni quanto i cattivi, partendo dall’idea di svelare l’ipocrisia alla radice dell’happy ending e rimarcando che al sicuro dalla dolorosa via di mezzo della felicità non possono sfuggire neanche gli eroi delle fiabe.

L’integrità dell’immaginario fantastico e del suo clima idilliaco adotta così connotati fortemente ambigui e perturbanti che rendono tutti i personaggi in qualche modo vittime di un desiderio innocente che, perso il senso della misura, trascende nella tragedia della hybris, coinvolgendo ugualmente una coppia di umili fornai (James Corden ed Emily Blunt) resi sterili da una maledizione, una Cenerentola (Anna Kendrick) lontana dalla naïveté e dal candore del prototipo, un principe azzurro (Chris Pine) vanesio e fedifrago, una Cappuccetto Rosso (Lilla Crawford) sensibile al fascino della tentazione e altri protagonisti del patrimonio fiabesco trasfigurati e impreziositi dalle sfaccettature, dalle imperfezioni e dai difetti delle persone comuni.

L’adattamento ad opera di Rob Marshall, al suo terzo musical per il grande schermo dopo Chicago e Nine, si sforza di mantenere l’impronta tetra e adulta della fonte, ma è tenuto a freno dall’esigenza di allestire uno spettacolo per famiglie e di glissare sugli elementi più controversi con evidenti ripercussioni sull’equilibrio della narrazione, attenuandone tanto la violenza, con figure di primo piano liquidate incerimoniosamente e con una pudicizia che ridimensiona la portata drammatica delle scene madri, quanto l’esplicito sottotesto erotico, compreso un Lupo Cattivo (Johnny Depp, in una comparsata di non più di 5 minuti) ridotto a pretestuoso excursus cartoonesco che invece sul palcoscenico assumeva sconcertanti sfumature pedofile.

Al di là del registro fattosi incerto, i tagli operati e le appropriate traslazioni da teatro a cinema conferiscono all’insieme una natura indefinita, smorzando la chiave parodica di molte caratterizzazioni, adeguando certe irrappresentabili soluzioni a compromessi fracassoni (in primis, la brutta accelerazione del finale resa con un massiccio e inopportuno accumulo di CGI sulla falsariga de Il cacciatore di giganti) e soprattutto esasperando la già traumatica cesura fra il primo e il secondo atto, che con la soppressione – obbligatoria – dell’intervallo e – decisamente controproducente – di due brani decisivi, collocati rispettivamente subito prima e immediatamente dopo il suddetto, si risolve in un brusco cambio di tono da cui il film non sa più ripartire, riducendo ogni tentativo di riflessione sulle responsabilità e sulle delusioni della crescita, che sono poi i significati reconditi del bosco del titolo, in cui le varie sottotrame si attorcigliano e si complicano, in un sommario, sbilanciato affresco distopico.

Come già per Chicago, Marshall sa riprodurre fedelmente i suggestivi trucchetti da diligente architetto della scena, come nel caso dell’eccezionale overture a strofe intrecciate o delle repentine, fantasmatiche apparizioni da dea ex machina della Strega (la solita, divertita Meryl Streep), ma stenta ancora a concepire un linguaggio filmico originale in grado di emanciparsi dal modello e di rendere davvero necessaria una versione cinematografica senza scadere in un artefatto baracconismo.

Un esperimento interessante, certo, ma in buona sostanza un’occasione mancata, sorretta da un repertorio ormai assodato (in particolare On the Steps of the Palace, pezzo di bravura per la Kendrick, e la struggente chiusura di No One Is Alone) e dall’affiatamento del cast, in parte penalizzato da un Corden troppo poco carismatico per reggere un ruolo tanto prominente, ma arricchito da interpreti di contorno libero di scatenarsi in un contesto sfacciatamente e irresistibilmente camp (specie l’insospettabile Pine nell’esilarante lamento di Agony), insolito scenario di quel canto del cigno che la Disney si meritava ma che, per orgoglio, non è riuscita fino in fondo ad emettere.

Voto 5,5

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