Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
C’era una volta uno sceneggiatore di nome Paul Haggis.
Nato artisticamente nei primi anni novanta come creatore e autore della serie TV Walker, Texas Ranger (sì, proprio quella con Chuck Norris) Haggis riuscì a inanellare, più o meno verso la metà degli anni zero, gli script di alcuni dei film più belli usciti in sala in quel periodo.
Scrisse per Eastwood Million Dollar Baby e la collaborazione tra i due continuò anche per il dittico Flags of Our Fathers/Letters From Iwo Jima. Contemporaneamente, riuscì addirittura nell’impresa di infondere nuova linfa a un franchise dato ormai da tutti per bollito con il James Bond di Casino Royale.
Per dire, perfino The Last Kiss, il remake americano de L’ultimo bacio, non era affatto male.
Tutto sembrava riuscirgli talmente bene che anche quando esordì alla regia con Crash ne venne fuori un mezzo capolavoro, così ricco da un punto di vista narrativo da generare addirittura una serie TV.
Insomma Paul Haggis era – forse l’unico, insieme ad Aaron Sorkin – lo sceneggiatore con cui andare sul sicuro.
Non è un caso che io usi l’imperfetto, perché evidentemente qualcosa negli anni deve essere successo e la dicitura “written by” seguita dal suo nome ha smesso ormai da tempo di essere garanzia di qualità.
Sebbene infatti le sue successive regie, Nella valle di Elah e The Next Three Days, fossero opere tutto sommato dignitose, è stato subito chiaro che qualcosa era cambiato e che Haggis, nel passaggio da scrittore ad autore tout court, avesse perso per strada alcuni pezzi importanti.
A pensarci la costante delle sue migliori sceneggiature è sempre stata una scrittura lineare, spesso incentrata sul confronto emotivo tra personaggi che avevano tutti perso qualcosa o stavano per perderlo a breve. In Third Person l’autore ha la pessima idea di amplificare a dismisura quest’ultimo elemento trascurando però del tutto la coerenza interna, sostituita qui da una deriva metatestuale con cui, se non sei proprio Charlie Kaufman, è sempre meglio andarci piano.
Veniamo al dunque però.
Ci sono tre linee narrative che si intrecciano, la principale delle quali racconta la crisi creativa dello scrittore premio Pulitzer Michael (Liam Neeson) che, autoesiliatosi in una camera d’albergo parigina, cerca ispirazione per un nuovo romanzo e flirta con la sua ambiziosa pupilla Anna (Olivia Wilde).
Intanto, in una Roma così finta come non la si vedeva dai tempi dell’alleniano To Rome with Love, l’americano Scott (Adrien Brody) ha un inspiegabile colpo di fulmine per una ragazza Rom che lo porta a lasciarsi derubare, in maniera quasi consapevole, di tutti i suoi averi.
A New York, infine, l’ex attrice di soap opera Julia (Mila Kunis) combatte, con i pochi mezzi che le sono rimasti, una battaglia legale già persa in partenza per la custodia del figlio.
Ciò che accomuna tutti i personaggi sembra essere la presenza di un dolore recente che non permette loro di guardare avanti.
Neanche il tempo di capire di cosa si parla che Haggis ha la malsana idea di incrociare, contro ogni logica razionale, almeno due delle tre succitate storie con la conseguenza di dover impiegare il resto della vicenda nel vano tentativo di far tornare i conti.
E qual è l’escamotage più ovvio per togliersi dall’impiccio e riportare agevolmente tutto a casa quando si è perso il bandolo della matassa? Ma il metatestuale, è chiaro.
Ecco allora che, illudendosi che nessuno abbia mai visto I soliti sospetti, si insinua nello spettatore il dubbio che solo una delle tracce narrative sia reale e le altre possano invece essere frutto dell’immaginazione di quello che si rivela essere il vero protagonista del film.
Tutto molto facile e soprattutto già visto, se non fosse che l’autore non ha neanche il coraggio di spingere questo pedale fino in fondo e lascia così quello stesso spettatore alle prese con il fastidiosissimo dubbio di non aver capito nulla di quanto ha appena fruito. Third Person risulta così involuto e accartocciato su se stesso che persino lo splendido cast si perde in una sequela infinita di facce basite e sguardi persi nel vuoto. Chi ne paga maggiormente il prezzo sono un Liam Neeson costretto in un’unica immutabile espressione contrita per tutta la durata del film e Adrien Brody, quasi stordito mentre prova a destreggiarsi tra la bella gitana (Moran Atias) che lo raggira e gli stereotipi della città eterna vista dagli americani. Il buon James Franco, forse conscio del guaio in cui si è andato a cacciare, fa giusto il minimo sindacale.
Abbastanza un disastro insomma.
Voto 4
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