Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
La dolcezza.
Un concetto che difficilmente in passato il cinema di Nanni Moretti avrebbe potuto richiamare e che invece, durante la visione di questo suo nuovo, dodicesimo film, ricorre più volte.
Il rigore, sia formale che narrativo, de Il caimano e di Habemus Papam qui si stempera in una dolente malinconia che è sì figlia di un lutto tanto importante quanto ineluttabile (la scomparsa della madre, avvenuta solo quattro anni fa) ma soprattutto di una maturità autoriale ormai pienamente raggiunta e, in qualche modo, sintesi di tutti i Moretti finora conosciuti.
Il coinvolgimento personale è tale da spingere l’autore a scegliere di defilarsi come attore senza però rinunciare alla centralità del suo ruolo, per cui quello che un tempo era Michele Apicella qui diventa Margherita (Margherita Buy), regista in piena crisi creativa e personale, alle prese con un film sull’occupazione di una fabbrica in crisi e con la fine di una relazione che molto semplicemente “non andava”.
A questo si aggiunge la lenta presa di coscienza del fatto che sua madre (una straordinaria Giulia Lazzarini), sta per morire.
La vita di Margherita si divide così tra il capezzale dell’anziana donna – per lei un vero e proprio faro, umano e intellettuale, che a breve smetterà di brillare – e un set reso particolarmente complesso dalle bizze della star americana Barry Huggins (John Turturro).
A sostenerla un fratello (Nanni Moretti), anch’egli in crisi dal punto di vista professionale, anche se apparentemente più consapevole della grave perdita che sta per colpirli.
In Mia madre confluiscono tutte, o quasi, le istanze portate avanti, con rara pervicacia, da Moretti nell’arco di una carriera ormai quarantennale.
C’è innanzitutto una riflessione sul proprio ruolo di cineasta, resa più acuta (e meno autoreferenziale che in passato) proprio dalla pudica scelta di evitare per sé il centro della scena.
Battute come “il regista è solo uno stronzo a cui date sempre ragione” o i momenti in cui Margherita si rivolge agli interpreti del suo film dicendo che “accanto al personaggio voglio vedere anche l’attore” sono forse le concessioni più immediate a chi sia in cerca di facili “morettismi”, ma testimoniano anche una lucidità inedita nel rifiuto di un ruolo che, da La messa è finita ad Habemus Papam, è centrale nella sua filmografia.
Ma è chiaro fin dalle primissime immagini come il giochino metacinematografico del film nel film non rappresenti affatto il fulcro di un’opera che, paradossalmente, è situato più a latere, in un dolore incarnato appieno proprio dal ruolo secondario dello stesso Moretti che, lasciata alla Buy la responsabilità di “fare Moretti” e a Turturro il ruolo comico, suggerisce il vero mood di un lavoro totalmente incentrato sull’accettazione della morte (si badi bene, non sull’elaborazione del lutto) come atto doloroso e necessario della crescita personale.
Nulla a che vedere quindi con l’emotività insistita e, per molti versi, violenta de La stanza del figlio.
Di quel film infatti, più che la riflessione sulla morte in senso stretto, Mia madre eredita il cotè psicanalitico (presente nel perenne stato di confusione tra ricordo e realtà in cui versa Margherita) e il discorso sulla persistenza della memoria negli oggetti.
Il ricordo della madre, professoressa di lettere al liceo, è tutto nei suoi libri e nella percezione di quanto, dopo un’intera vita spesa a leggerli e a studiarli, alla fine poco o nulla rimanga.
Film incentrato sull’assenza che, dell’assenza, fa la sua ragione d’essere, Mia madre è un’opera composta di tanti spazi vuoti, giustapposti e abilmente disseminati da Moretti lungo un percorso solo apparentemente lineare.
Il senso infatti, più che in una struttura narrativa che di fatto è minima, andrebbe ricercato negli angoli, nei brandelli di conversazione a tavola o anche solo nelle scene che ritraggono Margherita Buy (trattandosi di una delle attrici italiane più blasonate è quasi pleonastico a dirsi, ma la sua prova è davvero magistrale) cercare invano di spiegare alla figlia adolescente perché il Latino sia una materia importante e insegnarle a guidare lo scooter.
Lo stile minimale e privo di fronzoli del Moretti regista si sposa alla perfezione con l’intimità del racconto, tanto che l’impressione, a tratti, è di trovarsi a spiare un dolore privato attraverso una porta lasciata inavvertitamente socchiusa.
Ed è strano se si considera che l’invito a farlo provenga da un autore certo egocentrico, ma anche oltremodo geloso della propria sfera personale.
Con Mia madre invece Moretti si ammorbidisce e firma il film più personale della fase matura della sua carriera.
Non il suo capolavoro – non raggiunge le vette di Habemus Papam – ma di sicuro il più sentito.
E il più dolce.
Voto 7,5
Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.
Moretti firma la pellicola più personale dell’ultima fase della sua carriera e vi concentra un’insospettabile dose di dolcezza.
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