Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Che si tratti di fedeli riproduzioni del canone o di volenterose iniziative di aggiornamento, le tappe del neonato Neoclassicismo Disney continuano a delineare un tragitto sbilenco e disorientato, appesantito da un’autoreferenzialità ai limiti del vanesio (i tristi rifacimenti in carne e ossa dei classici della tradizione, peraltro in esponenziale aumento) e dalla disperata necessità di cavalcare impersonalmente le mode del momento e di non restare indietro sulle preferenze del pubblico (i clamorosi insuccessi di John Carter e di The Lone Ranger, senza dimenticare l’indistinto corpo estraneo Big Hero 6). Non fa eccezione l’esperimento temerario ma improprio di Tomorrowland, sulla carta il trionfo di quella poetica atompunk che già dal sensazionale esordio de Il gigante di ferro contraddistingue l’opera di Brad Bird, nei fatti un goffo, sistematico guazzabuglio di ingredienti base del blockbuster moderno assemblati con freddo metodo industriale.
Il viaggio di formazione della teenager Casey – la televisiva Britt Robertson, decisamente troppo in là con gli anni per il profilo naif del suo personaggio – e le sue rocambolesche peripezie alla ricerca di una fantomatica, futuristica dimensione parallela alternativa a un mondo reale sull’orlo della distopia sembrano voler ripetere la formula ormai consolidatasi dell’universo young adult passato con prepotenza dalla pagina scritta al grande schermo, snaturando lo spirito rétro alla radice del progetto a favore di un generico, rimasticato immaginario fantascientifico adolescenziale sulla scia di saghe come Hunger Games, Maze Runner o Divergent, abbinato per l’occasione e con gusto narcisista alla mitologia interna agli studi di Burbank (il titolo del film trae origine da uno dei settori di Disneyland e a scatenare gli eventi è un giro su quella che sarebbe diventata la più nota attrazione acquatica del parco, il percorso tematico It’s a Small World).
Concentrandosi sul lato più formulaico e logoro della storia, ossia la crescita e l’emancipazione della giovane protagonista, Bird sacrifica l’intuizione di maggior interesse, cioè la riflessione malinconica su un’illusione utopica mantenutasi tale e su un futuro che “non è più quello di una volta”, incarnata dal sognatore invecchiato e disincantato interpretato da un George Clooney inguaribilmente sempreverde e sbarazzino, mai credibile come scontroso, incattivito ultrasessantenne e visibilmente a disagio in un ruolo fuori dalle sue corde. Ne risulta un prodotto d’intrattenimento eccessivamente macchinoso e farraginoso per il suo target effettivo – i più giovani – e inevitabilmente irricevibile e decentrato per quello ideale – gli adulti -, una potenziale collezione di spunti non solo lasciati tronchi e declassati a vantaggio di uno sviluppo convenzionale e confortante da avventure su misura per ragazzi, ma anche malserviti dalle consuete furbate sibilline marchio di fabbrica delle sceneggiature di Damon Lindelof, non pago, dopo il controverso finale di Lost e le voragini di puro nonsense di Prometheus e di World War Z, di sovraccaricare i propri intrecci con domande cui non è dato avere risposta (o la cui risposta, rimandata all’infinito, si tradurrà necessariamente in un fuoco di paglia).
E se ogni giusta pretesa di autonomia narrativa deve fare i conti, come nel caso di Mad Max: Fury Road, con la disonestà di un cinema di consumo piegato all’obiettivo della serialità, è anche il tono dell’insieme a soffrire di squilibrio, crollando in un ultimo atto declamatorio e pedante fatto di spiegoni e di lezioncine sulla preservazione dell’ambiente capaci di sgonfiare un finale spettacolare servito su un piatto d’argento e di ridurlo a un elogio cattedratico e persino parafascista dell’elitismo (come già fu per Gli incredibili) e, più innocentemente, della scienza come espressione delle virtù umane.
Si può riconoscere soltanto a tratti il talento di Bird come regista dinamico abile a infondere nelle sue creazioni in live-action la stessa vivacità dei suoi capolavori animati – per esempio durante la scazzottata nel negozio di modernariato a colpi di icone vintage, probabilmente l’unico momento di autentico genio -, ogni tentativo di elevare la materia a disposizione si risolve in parentesi involontariamente perturbanti, per non dire morbose (l’amore rimasto inespresso fra il ragazzo divenuto uomo e l’androide restata bambina, nella fattispecie), e si passa di scena in scena come di carrozzone in carrozzone, trasformando l’iniziale stupefazione in semplice imbarazzo (la sequenza parigina, in questo senso, è forse il punto più basso). Insomma, Tomorrowland è un film che sconta gravi problemi di identità e che appare ben poca cosa rispetto alle ambizioni con cui era stato annunciato, talmente sbilanciato e irrisolto da assomigliare più al costosissimo episodio pilota di una serie TV che a un lungometraggio per le sale.
Magari, seguendo l’esempio del redento Andrew Stanton, sarebbe ora per Bird di tornare da mamma Pixar.
Voto 4
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