Fury

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Avevamo sperato di vederlo in sala a inizio anno, ma mercato e destino hanno avuto la meglio su Fury, la pellicola diretta da David Ayer che ha chiuso la scorsa edizione del London Film Festival. Il motivo di tanto ritardo è legato a doppio filo al fallimento della Moviemax, decretato lo scorso 10 gennaio dal Tribunale di Milano. La società di produzione e distribuzione fondata nel 2001 da Rudolph Gentile e Marco Dell’Utri era da tempo in difficoltà (erano state riscontrate irregolarità relative all’aumento di capitale e al piano di risanamento) e lo scorso novembre l’ex vice-presidente Corrado Coen era stato arrestato con l’accusa di aggiotaggio. In un primo momento sembrava che l’uscita di Fury non avrebbe risentito di tutto questo, ma evidentemente qualcosa è cambiato: il doppiaggio della pellicola, che era in corso, è stato interrotto a metà gennaio e la data di uscita del film  è stata rimandata a data da destinarsi. Fortunatamente è arrivata la Lucky Red ad inserirlo nel suo listino e a salvarne le sorti distributive.



E menomale, perché Fury è davvero un gran bel film, granitico, asciutto, con un cast perfetto e un buon ritmo. Ambientato nella Germania nazista appena collassata, durante gli ultimi giorni del secondo conflitto mondiale, ha come protagonisti una truppa di soldati americani e il loro carro armato Sherman, soprannominato Fury. Guidati dal sergente Don Collier (Brad Pitt), detto “Wardaddy”, Boyd Swan (Shia LaBeouf), Trini Garcia (Michael Peña), Grady Travis (Jon Bernthal) e l’ultimo arrivato, il giovanissimo e inesperto Norman Ellison (Logan Lerman), un dattilografo prestato all’artiglieria catapultato in prima linea senza alcuna esperienza né formazione, saranno protagonisti di una serie di temerarie ed eroiche missioni dietro le linee nemiche.

David Ayer, che aveva suscitato la nostra curiosità per aver scritto la sceneggiatura del notevole Training Day di Antoine Fuqua e per aver diretto End Of Watch e il meno riuscito Sabotage, qui alza decisamente il tiro guadagnandosi la nostra attenzione e confezionando un war movie potente, ruvido e brutale. L’eco de I sacrificati di Bataan di John Ford risuona in molte scene nonostante Fury più che un film sulla guerra, sia un film sugli uomini che l’hanno combattuta. Sarà perché Ayer prima di approdare a Hollywood ha prestato servizio in un sottomarino della marina americana, ma sembra conoscere piuttosto bene la vita militare, con i suoi cameratismi, lo spirito di obbedienza e una buona dose di patriottismo. In particolare Ayer riesce nella non facile impresa di tirare fuori il massimo dai suoi attori, pur avendo a disposizione per buona parte del film uno spazio strettissimo e claustrofobico come l’abitacolo di un carro armato.

La fotografia del giovane russo Roman Vasyanov e il montaggio secco ed essenziale di Dody Dorn (Terminator 2, Memento) conferiscono un realismo tangibile alla pellicola, che, nonostante qualche momento forzatamente eroico soprattutto nel finale, ha davvero poco di ruffiano.
Pitt, che è anche produttore esecutivo, funziona bene come punto di riferimento per i soldati che guida, con il suo accento marcatamente sudista e il viso sempre nero di fuliggine, e anche Shia LaBeouf. Leggenda vuole che quest’ultimo non sia sia lavato mai durante i quattro mesi di riprese e che si sia tagliato il volto, riaprendo la ferita costantemente, perché secondo lui il make-up non era sufficiente a mostrare la sofferenza del suo personaggio. Ma se tutto questo è servito a rendere il suo sguardo, nel film perennemente umido, così eloquente, benvengano metodi tanto estremi.

Voto 7

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Carolina Tocci

Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.

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