Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
E’ la fine degli anni Settanta a Boston e quella di Cameron (Mark Ruffalo) e Maggie (Zoe Saldana), a un primo sguardo distratto, potrebbe sembrare la più classica delle storie d’amore.
Quella di due che, molto semplicemente, si incontrano, si innamorano e decidono di mettere su famiglia.
Potrebbe.
Il condizionale è d’obbligo perché Cameron è affetto da un grave disturbo bipolare che gli rende piuttosto difficile conciliare i continui tentativi di combattere il disagio mentale con il ruolo di marito e, soprattutto di padre delle sue due bambine, Amelia (Imogene Wolodarsky) e Faith (Ashley Aufderheide).
In seguito a un esaurimento nervoso e alla perdita dell’ennesimo lavoro da parte dell’uomo, Maggie è costretta a farsi economicamente carico della famiglia e, per migliorare le proprie chance di ottenere un lavoro più remunerativo e di garantire ad Amelia e Faith un’istruzione adeguata, decide di iscriversi a un Master in Economia presso la Columbia University.
Peccato solo che la Columbia sia a New York e che la donna debba decidere se spostarsi con l’intera famiglia o correre il rischio di lasciare le bambine con il padre a Boston.
Di comune accordo, i due optano per la seconda soluzione.
Una volta rimasto solo con le bambine, Cameron sarà costretto ad affrontare i propri demoni e a dimostrare, prima di tutto a se stesso, di poter essere un buon padre.
Uno legge la trama di questo Teneramente folle e ci sta pure che possa pensare a uno di quei film che ti costringono al pianto (il termine tecnico è “ricattatorio” ma il suo continuo abuso mi ha spinto a ripromettermi di utilizzarlo solo quando strettamente necessario) più o meno per tutta la loro durata.
Nulla di più sbagliato però, perché Maya Forbes, forte della natura autobiografica della storia, riesce a infondere all’opera un mood sottilmente nostalgico e dolceamaro che la mantiene sempre ben distante dagli estremi più lacrimevoli dello spettro emotivo.
Questo è il primo è più importante merito del film d’esordio della Forbes (erede della nota dinastia editoriale) e immagino possa essere anche uno dei principali motivi che hanno spinto J.J.Abrams a produrre, con la sua Bad Robot, un lavoro apparentemente così lontano dalle sue corde abituali.
Ecco quindi che il tema della malattia mentale viene opportunamente smussato nei suoi lati più spigolosi per lasciare spazio alla dolcezza di chi quel disagio lo ha subito in prima persona e, complice il tempo passato, si permette di ricordarne quasi solo il buono.
E’ come se la storia venisse filtrata interamente attraverso lo sguardo di Amelia – la maggiore delle due figlie e, per molti versi, l’alter ego dell’autrice – che, pur senza essere voce narrante in senso stretto, agisce da osservatrice partecipante delle folli manie di Cameron, anteponendo però sempre il cuore a qualunque valutazione di tipo clinico.
Se il posizionamento della macchina da presa ad ‘altezza bimbo’ alleggerisce il film, affrancandolo dal rischio di diventare una delle tante cronistorie di disagio psichico a cui il cinema americano ci ha spesso costretti, il vero valore aggiunto di Teneramente folle è nell’interpretazione magistrale di Mark Ruffalo che con questo ruolo – forse il più complesso della sua carriera – corona una stagione magica, iniziata con il piccolo e delizioso Tutto può cambiare e proseguita poi con la (più che meritata) nomination per Foxcatcher e con Avengers: Age of Ultron.
L’attore è straordinario nell’evitare tutti i possibili luoghi comuni della malattia mentale per concentrarsi invece sulle delicate contraddizioni di un padre che è, allo stesso tempo, amorevole ma anche capace anche di gesti egoistici e di estrema irresponsabilità.
Per dire che Ruffalo, da solo, vale almeno il 50% di un film comunque al di sopra della media.
Ci sarà, ne sono certo, chi rimprovererà a Teneramente folle l’eccessiva edulcorazione di un tema così spinoso, ma è una critica confutata dalla struttura stessa di un film che, in nessuna delle sue scelte, ambisce ad avere una credibilità scientifica o ad essere altro da ciò che evidentemente è.
Un diario filmato (i numerosi inserti in Super 8 evidenziano questa lettura) tenero e nostalgico e una lettera d’amore di una figlia a un padre che, malgrado tutti i problemi, ci ha comunque provato.
Voto 7
Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.
Mark Ruffalo straordinario papà bipolare nell’esordio alla regia di Maya Forbes.
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