37° Festival di Mosca – Giorni 2/3

Di Andrea Bosco
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Racing Extinction

Racing Extinction

Visto lo striminzito tempo a disposizione, è tempo per il Festival Cinematografico Internazionale di Mosca di spingere sull’acceleratore e di dedicare un intero fine settimana alle pellicole in Concorso, con il risultato di amplificare l’impressione di un programma disarmonico, raffazzonato e male assortito. Il titolo che apre la divisione riservata alla non-fiction, lo statunitense Racing Extinction, è poco più di un convenzionale reportage sensazionalistico sull’attivismo ambientale e sulla protezione faunistica sullo sfondo di un dominio antropocentrico sfuggitoci di mano. Un pedante, ultradidascalico concentrato di lezioncine sulla difesa del pianeta volenterosamente camuffato da un approccio dinamico e da un gusto estetizzante da National Geographic, ma così appesantito dalla sua necessità di veicolare un messaggio (in fin dei conti dietro la macchina da presa troviamo Louie Psihoyos, che con il suo The Cove si aggiudicò un facile Oscar contando sull’effetto scalpore) da essere più vicino a una campagna di reclutamento che al cinema, così preoccupato di fare la sua lapalissiana morale e di fare dei suoi protagonisti dei santi (non manca l’ittiologo ripreso in lacrime mentre pensa agli squali mutilati) da dimenticare che alla base del linguaggio documentaristico dovrebbe risiedere qualcosa di ben diverso dal bieco effettismo e dal dottrinarismo.

Insufficiente per opposti motivi è il russo Larisina artel’ (L’equipe di Larisa), un anno di attività in un laboratorio pittorico tutto al femminile specializzato nella produzione seriale di dipinti a olio destinati ai mercatini e alle bancarelle. Se l’intenzione era mostrare il lato nobile del mestiere e la dedizione di un gruppo di artiste benedette dal talento ma azzoppate dalla fortuna, manca una forma definita che vada oltre il mero bozzettismo e la superficie, svelando un clima di contenimento e di reticenza che impedisce di andare in profondità tanto nel contesto in sé (il rapporto fra le donne è idilliaco, certi episodi, come la commissione di un duplicato dei celebri orsetti di Shishkin, sono evidentemente fatti ad arte), quanto nell’ambito sociale di cui ambirebbe farsi metonimia (il mondo fuori dalle finestre dello studio praticamente non esiste), peraltro riassumendo il tutto in non più di sessanta minuti.

Arventur

Pressoché nulla da dire sul successivo Arventur, prima dei tre concorrenti di fiction presentate dai padroni di casa, bizzarro e pretenzioso “film-fantasia” (così recitano i titoli di testa) realizzato in animazione rotoscopica suddiviso in due parti distinte, rispettivamente un omaggio alla dimensione utopica dei racconti dello scrittore sovietico Aleksandr Grin e una parabola taoista sul rapporto Arte-Potere, ma sfugge l’effettivo legame fra il primo e il secondo segmento se non un generico elogio dell’escapismo, oltretutto condotto con spirito freddamente intellettualistico e senza dare all’espediente tecnico usato dalla regista Irina Evteeva una vera ragion d’essere, finendo per risultare gratuito e, alla lunga, nauseante.



Sulla soglia della sufficienza si assesta il kazako Toll Bar, racconto morale sullo scontro fra classi mascherato da neo-noir, piuttosto risaputo e querulo nella sua divisione fra la brutale provvidenza dei ricchi e l’accanita malasorte dei poveri ma capace di condensare efficacemente in un’ora scarsa di durata un senso crescente di tensione praticamente con nulla (teatro della tragedia è principalmente il casello del titolo e poco altro) e l’immagine di un Paese in toto accecato dalla violenza delle proprie ambizioni.

The Ecstasy of Wilko Johnson

The Ecstasy of Wilko Johnson

Chiude la vetrina doc il nuovo tassello della filmografia musicocentrica dell’inglese Julien Temple, immaginifico cantore ipercitazionista del punk (i Sex Pistols di The Great Rock’n’Roll Swindle e di Oscenità e furore, i Clash di Joe Strummer: Il futuro non è scritto), ma questa volta il rock si limita a fare da cornice per raccontare il percorso di rinascita del carismatico chitarrista dei Dr. Feelgood: The Ecstasy of Wilko Johnson è di base il diario della lotta di quest’ultimo contro un tumore al pancreas apparentemente incurabile, una lenta, inesorabile preparazione a una morte poi scongiurata che si trasforma in un cosmico confronto fra il singolo e l’assoluto, ma tutto sembra soffocato da un tono esageratamente e insistentemente motivazionale, persino stucchevole in un reiterato elogio alla vita mal bilanciato da un personaggio sostanzialmente di scarso interesse – il ruolo di Johnson sulla scena locale è pressoché ininfluente – e da un uso di opere altrui a fungere da commento (facile emozionare il pubblico impiegando intere scene tratte dal Nosferatu di Murnau, da Stalker e da Scala al paradiso) che a lungo si fa sproporzionato e velleitario.

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