37° Festival di Mosca – Giorni 4/5

Di Andrea Bosco
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Losers

Salgono le quotazioni del Concorso dopo le belle sorprese di ieri, vette speculari di una selezione che sembra assestarsi su una sconfortante medietà indegna del secondo Festival cinematografico più antico del mondo: il bulgaro Losers è un’agrodolce commedia adolescenziale che sembra pescare nel microcosmo slacker di Larry Clark per riprenderlo con una malinconia e un senso di disorientamento vicini alla seconda Nouvelle Vague (Assayas, in particolare), trovando nel senso di attesa e di successivo disincanto di un gruppo di liceali di periferia alla vigilia del concerto di un’idolatrata quanto scapestrata band locale l’immagine di una generazione paralizzata e illusa dai propri punti di riferimento.

Il piglio è lieve e spassoso, con punte di comicità incontenibile (il lungo inseguimento con il campione di maratona), di poesia (la scena di seduzione sul letto del fiume essiccato) e di bravura (il bel piano-sequenza dell’afterparty), l’abbondanza di campi lunghi e lunghissimi sul grigiore ineludibile della provincia restituisce un senso di totale desolazione che contrasta fortemente con la vivacità dell’insieme e, nonostante la traccia di speranza finale, a rimanere impresso è quel senso di rassegnata tenerezza degna dei più onesti racconti di formazione.

The Road

Ancor meglio fa, sul versante opposto, l’eccezionale The Road, enigmatico e ipnotico viaggio nella memoria, nella routine e nei paesaggi contrastanti di Beirut e dintorni da parte di due giovani coniugi. Azzerando quasi totalmente i dialoghi e la componente musicale, fatta eccezione per il leitmotiv di Love Cry dei Suicide, l’esordiente Rana Salem, anche protagonista, immerge lo spettatore in una ricerca dove passato e presente, civiltà e natura, realtà e sogno si intrecciano senza soluzione di continuità e compongono un quadro che non è solo un’antonioniana disamina del rapporto di coppia o un’occasione per riflettere sulle contraddizioni e sulle scissioni inconciliabili che compongono un Paese multiculturale, plurireligioso e poliglotta come il Libano, ma anche un confronto identitario con se stessi (l’ossessione di lei per i selfie), con le proprie radici (i flashback di lui al capezzale della madre cristiana morente) e con l’assoluto. Immersivo, rigoroso e fuori da qualsiasi tentazione estetizzante, The Road è il primo vero film irrinunciabile della competizione e l’insperata promessa di una nuova, brillantissima voce della cinematografia mediorientale.



El Club

Inaugura la vetrina berlinese il discusso, straordinario El Club di Pablo Larraín, che apre la nuova stagione del cineasta sudamericano dopo la grande trilogia sul Cile di Pinochet con uno scavo nell’identità del Male che mette da parte la forza umoristica di No e sale di appena un gradino sopra l’abisso malebolgesco di Tony Manero e di Post Mortem. Nel profilo dei cinque ecclesiastici (fra cui non manca il fedelissimo Alfredo Castro) macchiatisi di inumane efferatezze assortite e confinati impunemente in una pacifica cittadina balneare viene quasi da immaginare un ideale seguito del Salò pasoliniano in cui nessuno ha pagato per i propri abusi e il potere vessatoriamente esercitato è visto ancora sotto una luce legittima.
Se Post Mortem era dunque l’Inferno della società cilena di ieri, El club altro non è che il Purgatorio di oggi, reso tetramente tale dai suoi interni lattiginosi e dai suoi esterni quasi sempre in controluce, ed è anche per questo che l’occhio di Larraín si tiene ben lungi da un facile e generico tono polemizzante, coinvolgendo tutti, vittime e carnefici, in un incubo cosmico sul concetto di colpa feroce e agghiacciante ma mai ghignante, capace di grandi momenti di tensione latente (i pasti, ripresi con lentissime inquadrature a stringere) e di insostenibile pathos (il climax di violenza notturna scandito dalle campane di Arvo Part).
In definitiva, un’opera imprescindibile e preziosa, sul cui destino distributivo in Italia finirà per pendere inevitabilmente la scure vaticana.

Completa il quadro il pressoché inesistente panorama su Cannes, rappresentato dal film di inaugurazione dell’ultimo Un Certain Regard, il nipponico An, dove il tenero animismo alla base del cinema di Naomi Kawase si piega ai territori accessibili del tearjerker e rinuncia al fascino ermetico dei suoi precedenti film (uno su tutti, l’eccellente Still the Water) per raccontare una storia piccola e benigna come i suoi personaggi, ma la sincerità di fondo cozza con una dolcezza che si fa a mano a mano sempre più insistita, meccanica e stucchevole, frenando la commozione e il coinvolgimento, limitando lo sguardo rarefatto e naturocentrico della regista a pochi, calcolati momenti; a seguire, in concorso, lo statunitense Cartel Land, reportage ad alto tasso di spettacolarizzazione sui corpi di vigilanza formatisi in Messico in difesa dal clima di terrore imposto dal narcotraffico, ma se la confezione è altamente professionale e arrischiata, con tanto di blitz e azioni paramilitari filmate in presa diretta, il risultato è troppo calibrato sugli espedienti mistificatori della fiction (musiche tonitruanti, taglio da action-movie di lusso, demarcazione netta fra buoni e cattivi) per sembrare sincero, e il giudizio a un passo dalla santimonia sull’operato di José Mireles, leader dei discussi gruppi di autodifesa locali, cela un elogio del farsi giustizia da sé che assume pericolose sfumature fascistoidi.

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