37° Festival di Mosca – Giorno 6

Di Andrea Bosco
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The Visit

Anche la sezione competitiva riservata alla non-fiction, incapace fino a ieri di andare al di là della sua antidiluviana concezione divulgativa, tira fuori gli artigli e presenta il suo primo campione: The Visit del danese Michael Madsen – no, non l’omonimo beone tarantiniano – orchestra un seducente ibrido che contamina l’affabulazione del mockumentary con il linguaggio sublime dell’elegia, ribaltando i presupposti dell’ignoto spazio profondo herzogiano e immaginando il primo contatto fra l’Uomo e l’extraplanetario non in qualche remoto meandro della galassia, ma sul suolo terrestre.

Madsen, descrivendo con l’aiuto di alcuni professionisti del campo tanto gli aspetti più metafisici (“conosci la differenza fra bene e male?”, “siamo pronti ad accoglierti?”), quanto quelli più marcatamente pratici della questione (chi dovrebbe essere il rappresentante del genere umano? come tutelare l’ordine pubblico?), conduce il suo esperimento con un magico esercizio di prospettiva, ponendo lo spettatore stesso nei panni dell’alieno e trasformando così il film da semplice speculazione fantascientifica in una riflessione sulla nostra autocoscienza e sul nostro implacabile senso di solitudine, e, non ultimo, in un elogio delle proprietà disorientanti del cinema.

Taxi Teheran

A seguire, il pezzo forte della vetrina sulla Berlinale, nientemeno che l’Orso d’Oro Taxi Teheran: sempre alle prese con le odiose restrizioni impostegli dal regime, il cineasta clandestino Jafar Panahi rompe ancora una volta il silenzio riducendo al minimo l’allestimento e, sfruttando il tema ricorrente della coincidenza e della confusione fra verità e racconto così fondativo nella cinematografia locale, si riprende al volante a girovagare per Teheran, ospitando di volta in volta sconosciuti, amici e familiari, tutti a modo loro condizionati dal clima di censura e di oppressione della società che li circonda, ma al di là dell’inconfutabile coraggio e della acclarata capacità di dire tutto con niente, il film sembra la risposta “di pancia” alle conclusioni devastanti ed estreme del suo di gran lunga superiore This Is Not a Film, punto di non ritorno dell’autore de Il cerchio, e una versione più sfuocata del Dieci di Kiarostami (anch’esso ripreso tutto dall’abitacolo di un’automobile): molti momenti memorabili, certo, dagli intrallazzi dello spacciatore di dvd agli esperimenti della vivacissima nipotina, fino a un finale laconico e potentissimo nella sua semplicità a riportare violentemente alla realtà, ma il film, questa volta, sembra lasciarsi vampirizzare troppo dalla propria missione per ambire alla statura dei capolavori passati.



Tornando al Concorso si resta comunque in Iran ma ci si immette sui binari rassicuranti della produzione istituzionale e allineata con il pessimo The Sea and the Flying Fish, generico dramma riformatoriale che sogna lo Zero in condotta di Vigo e insegue improponibili citazioni dall’ultimo atto de I quattrocento colpi – con tanto di oscena nuotata finale in CGI – ma che preferisce un tono declamatorio, ultraeffettistico ed edulcorato che suona insincero e pedante, fra musicacce pseudo-morriconiane, dialoghi sentenziosi, psicologie elementari e personaggi monodimensionali (ovviamente ripresi supergrandangolati, se cattivi), con blando messaggio escapista un tanto al chilo che con le problematiche autentiche delle vere pellicole antagoniste del Paese non ha assolutamente nulla a che fare.

My Good Hans

Si ritorna in patria, invece, con il virulento My Good Hans (Dolce Hans, Caro Pjotr), velenosa tragedia di ambientazione nazisovietica che ricorda i soprusi messi in atto, ai tempi del patto Molotov-Ribbentropp, dai datori di lavoro tedeschi sulla manodopera russa: il tutto è nobilitato da una virulenta direzione di attori di stampo fassbinderiano e da una messinscena ipnotica e contemplativa a base di inquadrature dilatatissime (il regista Aleksandr Mindadze è stato collaboratore di fiducia degli autori allegorici più noti dell’URSS, a partire da Adbrashitov), ma sorge il dubbio, visto che si parla pur sempre di sanzioni e di rapporti inconciliabili fra Russia e superpotenza occidentale di turno, che il film sia principalmente al servizio di una soffocante propaganda anti-europea (i dissoluti ingegneri protagonisti vorrebbero forse ricalcare i vertici UE?) i e che la professionalità dell’insieme sia guidata soprattutto da mero spirito patriottardo.

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