Il vero capitolo fondamentale del 37° Festival Cinematografico Internazionale di Mosca arriva dalla brigata berlinese (ma non è Taxi Teheran di Panahi) ed è cileno (ma non si tratta di El club di Larraín): a riconciliare il cinema con il suo essere necessario, non meno di quel The Look of Silence, anch’esso sbarcato a Mosca, che noi avevamo già visto e recensito a Venezia, è un’altra trenodia del massacro che trascende la grammatica documentaristica e che sfocia nei territori della poesia, identificando la sofferenza intergenerazionale e ciclica di un popolo con il dolore del cosmo.
El botón de nácar, contraltare idrocentrico delle distese sabbiose di Nostalgia por la luz, conferma Patricio Guzmán come uno dei narratori più audaci e onnicomprensivi del panorama cinematografico contemporaneo, capace di riassumere gli aspetti storici, geografici e antropologici del proprio Paese in un affresco lirico e totalizzante, intriso di simbologie strabilianti (il bottone del titolo lega un indigeno della Patagonia portato in Europa dai coloni inglesi e i resti di un anonimo desaparecido inghiottito dall’oceano) e di commoventi paralleli fra il passato, il presente e il futuro remoto di una civiltà “da dispiegare e da riavvolgere” (indimenticabile l’immagine della silhouette del Cile fisicamente riprodotta in scala ed esposta in tutta la sua sproporzionata lunghezza).
Ne esce un’esperienza immersiva di sovrumana suggestione – limitante, ma anche decisamente significativo, il Premio per la Sceneggiatura ricevuto a Berlino -, straripante di intuizioni e di digressioni intrecciate (il blocco di quarzo del prologo e dell’epilogo, il viaggio astrale come completamento di quello terreno stroncato dalla violenza, le testimonianze dei discendenti dei nativi), insomma un documento preziosissimo che, come nel dittico di Oppenheimer, coniuga alla perfezione la missione mnemopolitica del cinema con una fede totale nel potere dell’immagine.
Suona quasi senza senso immergersi nuovamente nel Concorso, considerato il livello desolantemente medio di metà settimana: Kimi wo Iiko della giapponese Mipo Oh è un’edificante e tenue storiella corale che affronta il tema assai impegnativo dell’abuso sui minori con un’impostazione da special televisivo pomeridiano, edulcorato e confortante quanto basta per non turbare mai davvero e per restare sempre nel novero delle soluzioni più facili, potendo contare soltanto su niente di più di una buona direzione di attori (specialmente la bravissima Machiko Ono, scoperta di Naomi Kawase). Il breve Armi Alive! è invece un incerto biopic sulla più nota imprenditrice tessile finlandese che parte da presupposti metafinzionali (la cornice è l’allestimento di uno spettacolo teatrale dedicato alla donna) evitando però svilupparli appieno, lasciando in superficie le iniziali notazioni sul mestiere dell’attore e sull’identificazione fra interprete e personaggio, pretesti mantenuti con il solo intento di far gigioneggiare senza ritegno la diva locale Minna Haapkylä e per giustificare una messinscena povera e una narrazione frammentaria.
Molto meglio il fronte del documentario, dove si impone il notevole A Young Patriot, diario della maturazione di un teenager dello Shanxi dal fanatismo iperpatriottico a base di slogan dell’adolescenza all’antagonismo disincantato dell’età adulta. Il cinese Haibin Du, già incoronato a Venezia66 nella fu sezione Orizzonti Doc con l’ottimo 1428, riprende i progressivi mutamenti di coscienza di un nipote della Rivoluzione Culturale e figlio di Piazza Tienanmen con dovizia di particolari e scavando nelle risolutive tappe di formazione di un pensiero indipendente – nei limiti, naturalmente, di una società dittatoriale – in grado di lasciarsi alle spalle le nebbie della propaganda, dal periodo di volontariato nella prefettura autonoma del Liangshan alle operazioni di sfratto e di ricollocamento che coinvolgono il suo intero nucleo familiare, fino all’inizio dei suoi studi universitari nel Sichuan.
Il ritratto è limpido e, nonostante l’estrema vicinanza al soggetto, di grande equilibrio, interessante tanto come ampio sguardo sull’invadenza e sulla mummificazione del regime cinese quanto come indagine microscopica sull’emancipazione e sulla crescita dell’individuo – altro che Boyhood -, con momenti di epico minimalismo (la distruzione della casa dei nonni, forse il picco emotivo della pellicola), di emozione sincera (il primo impatto con la povertà della comunità Yi) e, in generale, con una capacità di addentrarsi nella realtà circostante pur vantando un considerevole afflato narrativo che fa dimenticare la moria del resto della selezione competitiva.
Leave a reply