Fuochi d’artificio in pieno giorno

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Dopo aver inanellato una triade di vincitori esemplari in indiscussa predominanza sul resto del Concorso come Una separazione, Cesare deve morire e Il caso Kerenes, nel corso delle ultime due edizioni la Berlinale pare essersi assestata su scelte dettate meno dallo spirito di ricerca e più dall’ambizione di catturare il momento geopolitico del cinema di oggi, da un senso di responsabilità orientato verso un discorso più civile e diplomatico che effettivamente artistico. Se ne è avuta prova con il prevedibile trionfo di Taxi Teheran di Jafar Panahi, che, pur nella sua compiutezza e nella sua onestà, poco aggiunge ai destabilizzanti corto circuiti meta- di Pardé o del capolavoro This is not a film e a cui avremmo preferito un vincitore del calibro di El club di Pablo Larraín o, ancor meglio, di El botón de nácar di Patricio Guzmán.



È anche il caso del suo predecessore, l’orientale Fuochi d’artificio in pieno giorno, sparso qua e là per il Belpaese in una manciata di sale da questo pomeriggio con colpevole ritardo ma comunque un passo avanti rispetto a opere bellamente ignorate dalla distribuzione nostrana come Aimer, boire et chanter, epitaffio di Alain Resnais, l’esponente di turno della florida new wave greca Stratos e lo straordinario, rigorosissimo Kreuzweg di Dietrich Brüggemann, tutti titoli, specie l’ultimo, ben più degni del maggior riconoscimento del Filmpalast ma meno eclatanti e vistosi sotto il profilo internazionale.

A un anno di distanza dall’eccellente Il tocco del peccato di Jia Zhangke (Prix du scénario a Cannes66), l’avvincente e cupissimo poliziesco metropolitano di Diao Yinan rispecchia alla perfezione il clima di cambiamento e di “irrobustimento” della produzione cinese di genere: non serve aver letto Chandler o conoscere a menadito la storia del noir per intuire gli sviluppi non proprio originalissimi di un thriller investigativo a base di omicidi e occultamenti di cadavere, e quasi sorge il sospetto che, girata in Occidente o anche solo nella vicina Hong Kong, un’operazione simile non avrebbe sollevato il medesimo entusiasmo.

Determinante e assolutamente inconsueto è invece l’approccio adottato da Yinan, soprattutto nella sezione centrale, colma di ellissi e di silenzi, nella quale si avverte il timbro meditativo ed essenziale della produttrice Vivian Qu (avendo in mente soprattutto il suo esordio alla regia, Trap Street, passato a Venezia70), un metodo che, sullo sfondo dell’indagine, lascia percepire tutte le contraddizioni e i patimenti di un Paese allo sbando che ha perso le proprie certezze e che ha visto il Male propagarsi sin nei suoi basici elementi (il carbone e il ghiaccio del titolo internazionale), con un’efferatezza e un’irriverenza, fra smembramenti e violenze sessuali, ormai ordinarie per i parametri odierni ma ancora impensabili per il tabù imposto dalle autorità di Pechino, concedendosi il lusso di aprirsi ad accelerazioni spiazzanti (la sparatoria nel salone da parrucchiere, dritta dal catalogo di assurdità dei Coen) e a finezze contemplative, con un’attenzione maniacale alle luci e agli ambienti della periferia manciuriana, resi con un palpabile squallore che adatta all’intoccabile mitologia hard boiled le schiette asperità del realismo sociale.

Così, fra una lavandaia femme fatale emaciata e taciturna, un night-club surrealmente desolato a fare da sfondo, un antieroe di fronte al quale pure Marlowe diventa un campione di principi (il protagonista Liao Fan, anch’egli premiato a Berlino), Fuochi d’artificio in pieno giorno si appropria polemicamente di un canone finzionale ormai consolidatosi per trasfigurarlo alla luce delle storture del reale e si traduce in un invidiabile compromesso fra autorialità e commercialità, un esperimento accattivante che dovrebbe fungere da esempio su come unire la semantica dell’industria filmica di consumo con la grammatica del cinema d’essai.

Voto 7

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