Quando c’era Marnie

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“Il destino della Ghibli è segnato: lo studio scomparirà. Perché preoccuparsi, poi? È qualcosa di inevitabile” – Hayao Miyazaki

Fra lo scontato ma comunque destabilizzante addio annunciato di Hayao Miyazaki dopo la presentazione di Si alza il vento, l’avanzare della vecchiaia di Isao Takahata, il clamoroso insuccesso del suo opus magnum La storia della principessa splendente e le contraddittorie indiscrezioni disseminate nervosamente per un anno abbondante dal co-fondatore Toshio Suzuki, nel frattempo dimessosi dal suo storico ruolo di produttore, lo Studio Ghibli si trova oggi ad affrontare il periodo più delicato della propria storia, al bivio fra la tentazione di chiudere i battenti prima dell’inesorabile decadenza e l’esigenza di un impietoso e impraticabile ricambio generazionale.

Fatti i conti con la prematura scomparsa dell’erede designato Yoshifumi Kond?, autore del celebratissimo I sospiri del mio cuore, ammortizzati i complessi edipici di Gor? Miyazaki e relegato il resto della nuova leva a occupazioni di secondo piano, il colosso dell’animazione nipponica si vede allo stato attuale delle cose pressoché privo di figure creative di spicco, al punto da rendere necessaria una lunga pausa di riflessione e di riorganizzazione, e non ha di certo giovato all’integrità dell’azienda un’ulteriore, e stavolta sorprendente, defezione, quella del giovane Hiromasa Yonebayashi, che con il suo esordio Arrietty, pur senza accendere gli entusiasmi, aveva aperto uno spiraglio sul possibile futuro della compagnia e che ora, a bocce da tempo ferme, ritroviamo alla regia di Quando c’era Marnie, confermando ancora una volta i legittimi dubbi sullo scarto incolmabile fra l’inventiva dei veterani e il disorientamento dei novizi dell’equipe già intuibile dai primi, modestissimi risultati di Miyazaki jr.

Pur attingendo dall’universo young-adult occidentale, nella fattispecie dall’omonimo romanzo per adolescenti dell’inglese Joan G. Robinson, ispirazione dichiarata dell’immaginario miyazakiano, Yonebayashi adatta il tutto alla sensibilità del genere sh?jo, sulla scia del già menzionato I sospiri del mio cuore e del mediocre La collina dei papaveri, accentuando così le venature morbose e patologiche del percorso di crescita di una fragile dodicenne di Sapporo attraverso le sue fobie, le sue insicurezze e i suoi tentativi di integrazione verso l’indifferenza del mondo che la circonda: se le coordinate, quindi, restano quelle del puro racconto di formazione, il fascino gotico dell’insieme e la piega sottilmente sovrannaturale delle vicende, fra manieri abbandonati e manifestazioni spettrali, sembrano venire dalle pagine della Du Maurier, ed è nell’ibrido sbilanciato fra meditazione introspettiva e gestione dell’intreccio che risiedono le debolezze dell’opera in toto, nell’articolarsi di un mistero che rimane pigramente ineffabile dove non dovrebbe (i traumi che condizionano il fantasmatico personaggio del titolo, la natura degli incontri – onirica? transtemporale? allucinatoria? – fra le due protagoniste) e che solamente all’ultimo ritorna sui propri passi con un apparato di colpi di scena, di riconoscimenti e di agnizioni che vorrebbe suscitare stupore e commozione ma che si rivela più che altro macchinoso, affrettato e male orchestrato, sigillato peraltro da un epilogo accomodante che cancella con troppa superficialità tutti i problematici presupposti iniziali.

In questo modo l’aspetto di maggiore interesse del film, ossia quell’indagine psicologica che ha reso molte eroine Ghibli un modello di identificazione, resta soffocato da una sovrastruttura preponderante e squilibrata, incerta fra il tono placido e sonnacchioso de Il mio vicino Totoro e la girandola aneddotica di Kiki – Consegne a domicilio, e anche la resa prettamente stilistica, a fronte delle scommesse e delle sperimentazioni delle più recenti meraviglie, si assesta su un registro medio carente di fantasia, dal character design derivativo alla piattezza degli sfondi, e soltanto a tratti indistinguibile dalla massa di produzioni anime convenzionali, con la sola romantica colonna sonora di Takatsugu Muramatsu a conferire un minimo di suggestione.

Non abbiamo a che fare, pertanto, con l’ultimo “capolavoro targato Ghibli” evocato ormai aprioristicamente dagli strilloni a ogni uscita, ma con un capitolo di critica transizione che suona, almeno per ora, come il dimesso, deludente canto del cigno di una delle principali fucine immaginifiche del cinema contemporaneo, un esercizio trascurabile che, citando il titolo del documentario a essa dedicato, dei sogni e della follia della casa madre non presenta nemmeno un’oncia.

Voto 5

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