A film di apertura concluso, resta chiaro che la migliore passeggiata sul vuoto di inizio stagione se l’è prevedibilmente aggiudicata New York: vistosi “usurpato” l’attesissimo The Walk di Robert Zemeckis, Venezia ha ripiegato così su un’entree a tratti inesplicabile per una manifestazione del suo calibro, specie dopo il clamoroso tandem di Gravity e di Birdman.
Se non per il semplice scopo di rimpolpare un red carpet non proprio sovrabbondante con qualche faccia nota, sfugge il motivo alla base della scelta di un prodotto da multisala come Everest come pellicola di inaugurazione, carente tanto dal punto di vista biecamente intrattenitivo, quanto – ma i dubbi erano ben pochi – come occasione per l’islandese Baltasar Kormakur di rivelarsi in veste di autore action ormai collaudato.
Il film infatti sembra appartenere al genere desueto del disaster movie corale à la Airport, sovrappopolato di celebrità scarsamente assortite con cui lo spettatore è chiamato a identificarsi, ma c’è ben poco per cui esaltarsi fra caratterizzazioni antidiluviane (il texano spaccone ma fragile di Josh Brolin, lo scapicollato fricchettone di Jake Gyllenhall, lo scalognato in cerca di rivalsa di John Hawkes, ma il top sono le mogliettine scalpitanti delle svogliatissime Keira Knightley e Robin Wright), uno sviluppo tedioso che passa dall’adventure sonnacchioso della prima metà al survivalistico esagitato della seconda. Una confezione pulitina che alterna soprattutto estetizzanti panoramiche aeree a sequenze action male orchestrate (senza tirare in ballo un 3D che più accessorio non si potrebbe), momenti al limite del brutto come la repentina resurrezione innescata dai flashback a ralenti della famigliola in stile Mulino Bianco e dialoghi piattissimi a base di pipponi motivazionali e di gradassate assortite.
Peccato, perché dal film sembrava evincere una riflessione sui limiti dell’uomo comune alle prese con la Natura e con se stesso, come dimostra lo scontro fra l’attitudine “chioccesca” e possibilista del personaggio di Jason Clarke, pronto ad ammettere principianti nelle proprie cordate con quella elitarista di quello di Gyllenhall – che pure si conclude in parità -, ma Everest non riesce ad andare oltre alla propria identità di semplice blockbuster.
Ben altro discorso per Un monstruo de mil cabezas, che dà il via alla sezione Orizzonti con il ritorno in Laguna di Rodrigo Plá, già Premio DeLaurentiis con l’eccellente La zona.
Come allora, il giovane cineasta cileno torna a scavare nel clima di ingiustizia sociale, di prepotenza e di malversazione del Messico dei nostri tempi, focalizzandosi questa volta sul settore burocratico-sanitario e riducendo lo stile levigato e morbido (ancorché usato per raccontare ancora una volta episodi di pura violenza) dell’esordio a un linguaggio molto più spigoloso e respingente, abbondando con sfocature deumanizzanti, inquadrature sghembe, destrutturazioni narrative e lunghi piani fissi: il risultato è un minuscolo thriller proletario di deflagrante potenza che conferma la maturazione avvenuta nel percorso artistico di Plà e le prime speranze nei confronti della nutritissima comitiva sudamericana.
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