Venezia 72 – Giorno 6

Di Andrea Bosco
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Il cast di The Endless River

Il cast di The Endless River

Se con la presentazione dell’interlocutorio squarcio adolescenziale Montanha del portoghese João Salaviza e dell’indistinto scavo nella condizione femminile Ana Yurdu della turca Senem Tüzen si conferma il sospetto che la Settimana della Critica, fiore all’occhiello e sezione complessivamente migliore dell’edizione passata, non abbia dato le soddisfazioni sperate, è con il Concorso che la Mostra subisce una nuova, micidiale battuta d’arresto.

Il sudafricano The Endless River getta infatti la selezione nuovamente nell’abisso dell’autorialità più severa e intransigente, proponendosi come l’oggetto più respingente e ostile della competizione: non che la cosa sia necessariamente un male di per sé, anzi, ma la terza fatica di Oliver Hermanus gira intorno a presupposti e suggestioni tanto potenti sulla carta (la descrizione di due solitudini unite dal lutto ma condannate comunque a non conciliarsi mai, le sensibilità praticamente western del contesto, rese già evidenti dai titoli di testa in stile classico MGM) quanto disinnescati da una gestione indolente e abborracciata del tutto che si limita a impaludarsi nell’insistita mestizia dell’insieme e a sguazzare nell’indeterminatezza dell’intreccio.

Forse Hermanus si è evoluto rispetto al bieco, gelido enumeratore di nefandezze che fu (anche se, come nel precedente Skoonheid, è lasciato grande spazio a una scena di stupro che non lascia scampo), ma il suo cinema non povero di spunti ha i piedi d’argilla, e affrontare la sua programmatica sgradevolezza non conduce ancora a qualcosa di davvero gratificante.



Il cast di Non essere cattivo

Il cast di Non essere cattivo

Si torna in Italia e ci si dimentica della distribuzione dei premi la mattina successiva, con l’approdo in Darsena del film-testamento di Claudio Caligari, che sull’onda della di lui prematura, recentissima scomparsa molti avrebbero visto volentieri a giocarsi il Leone d’Oro: Non essere cattivo, tuttavia, è un ibrido che a tratti contraddice l’approccio documentaristico e il tono autentico dell’autore di Amore tossico, di cui ritornano la cosmica desolazione borgatara e l’occhio affettuoso rivolto alla vita di espedienti dei suoi protagonisti, annacquati però da gratuiti scivoloni nel melodramma (praticamente tutto il secondo tempo) che si risolvono in un’artefazione generale fuori luogo per la poetica di chi si era presentato come un alfiere del cinema-verità.

Luca Marinelli e Alessandro Borghi

Luca Marinelli e Alessandro Borghi

E se è innegabile che, come a fine secolo lo fu l’altro tuffo a ritroso di vent’anni de L’odore della notte, Non essere cattivo possa dirsi un’opera aliena orgogliosa del proprio anacronismo e della propria autarchia, le situazioni e i personaggi appaiono più derivativi e meno a fuoco di quanto sembrino, e nonostante un cast in palla (in primis un Luca Marinelli allucinato e irriconoscibile) viene quasi il dubbio che il culto tributato a questo sfortunato cantastorie della periferia romana sia stato leggermente sproporzionato.

Meshi Olinski, Amos Gitai e Sarah Adler

Meshi Olinski, Amos Gitai e Sarah Adler

Era necessario che la Mostra effettuasse il giro di boa e si affidasse a un altro dei suoi più affezionati visitatori perché il Concorso riequilibrasse un livello ormai penalizzato da tante, troppe cadute: Amos Gitai, per la quarta volta consecutiva in Laguna a trovar posto fra una sezione e l’altra, alza il tiro e realizza il tassello definitivo e compendiario della sua decennale disamina dell’identità israeliana, non, come forse ci si poteva aspettare un’indagine complottistica à la JFK o un primo piano della personalità e dell’operato del primo ministro laburista che rischiò di rendere possibile la pace in Terrasanta, ma una amarissima, furibonda e polemica riflessione sulla sua assenza, sugli oneri e sulle rivendicazioni odierne di un intero Paese incapace di fare i conti con le proprie contraddizioni e con i propri sensi di colpa.

Mescolando materiale d’archivio, ricostruzioni finzionali, interviste, usuali divagazioni in long-take e atti processuali, Rabin: The Last Day diventa così una meditazione sul Potere che fa a pezzi tutti i possibili manicheismi che accompagnano la questione mediorientale e una nuova occasione per il regista di Ana Arabia di interrogarsi sul senso di responsabilità che coinvolge tutti, uomini di Stato e artisti, vittime e assassini, testimoni e complici.

Bomba a mano sganciata sul Concorso, il nuovo capolavoro di Amos Gitai è a questo punto l’unico titolo di Venezia72 (sì, anche più di Sokurov) a poter ambire senza riserve alla vittoria finale.

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