Dove eravamo rimasti

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Ricki Randazzo (Meryl Streep) è l’ormai matura front woman dei Flash, rock and roll band di provincia con cui tira a campare, esibendosi la sera in uno scalcinato bar di provincia per un non particolarmente folto pubblico di appassionati.
E’ una tosta Ricki, ma si intuisce che, dietro la chitarra elettrica e il pesante make-up, nasconde ferite che il tempo ha rimarginato a fatica e solo in parte. Ferite che basta un nonnulla per riaprire.
Basta la telefonata di un ricco ex-marito (Kevin Kline) che la informa della fine burrascosa del matrimonio della figlia Julia (Mamie Gummer) e Ricki è già su un aereo.
Il ritorno a una dimensione familiare abbandonata anni prima per inseguire un successo di fatto mai raggiunto sarà tutt’altro che facile.



Il racconto di un difficile ritorno a casa coincide con un altro ritorno, quello dietro la macchina da presa di Jonathan Demme dopo sette anni dal suo ultimo film. Da quel Rachel sta per sposarsi che a posteriori può tranquillamente essere letto come lavoro propedeutico e, al tempo stesso, speculare di questo Dove eravamo rimasti. Laddove infatti nel precedente film era una figlia a fare ritorno a casa per riappropriarsi degli affetti familiari perduti,  qui accade l’esatto contrario e, a tentare l’arduo riavvicinamento, tocca appunto a una madre.
La natura speculare delle due opere risiede invece nella totale antitesi dei filtri utilizzati per la narrazione: da un lato lo stile scarno e documentaristico nel caso di Rachel sta per sposarsi e, dall’altro, la leggerezza agrodolce e la commedia dai toni indie di Dove eravamo rimasti.

Lo script, d’altronde, è frutto del talento di Diablo Cody, che porta in dote la sua visione della famiglia disfunzionale e una scrittura piena di tenero cinismo che, quando temi stia andando a parare verso un finalone banalmente riconciliatorio, ti spiazza allontanandosi dalla melassa per diventare qualcosa di molto più simile alla vita vera. Demme, dal canto suo, riveste il tutto con una visione della società americana intima, quasi minimale. Lo stesso incipit del film, con Meryl Streep che suona davanti a un pubblico di attempati redneck, per poi dichiarare apertamente, tra una canzone e l’altra, le proprie simpatie repubblicane appare quasi come una dichiarazione d’intenti. E’ il modo che ha il regista di dirci che quella che ci sta mostrando è un’altra faccia dell’America, quella meno glamour e che, sulla carta, non dovrebbe neanche piacerci troppo, per dimostrarci poi invece che i tempi in cui viviamo sono talmente confusi che anche questa America, alla fine, può risultarci simpatica.

Specchio impietoso di una società che pone il successo come elemento fondante della realizzazione personale per poi condannarne gli effetti nefasti sulle dinamiche familiari quando questo successo non viene raggiunto, Dove eravamo rimasti è dunque un lupo travestito da agnello: una commedia all’apparenza innocua che, con lo scorrere dei minuti, si libera progressivamente della sua natura più ridanciana per concentrarsi invece sul suo nucleo più amaro.
Oltre a rappresentare per Jonathan Demme anche un’ottima scusa per ritornare a fare una delle cose che meglio gli riescono: filmare il rock.
Dopo le riprese integrali dei concerti di Talking Heads e Neil Young – rispettivamente in Stop Making Sense e Heart of Gold – Demme prova infatti a portare il suo amore per la musica a un livello superiore, rendendola protagonista di un film di finzione al punto da rendere le canzoni stesse (e il film ne è pieno) il vero asse semantico della storia.
In tal senso, non è affatto un caso che il momento emotivamente più intenso dell’intero film non sia legato ad un particolare scambio di battute tra i personaggi, bensì all’esibizione finale di Ricki sulle note di una My Love Will Not Let You Down di Springsteen suonata al figlio come regalo di nozze perché, come lei stessa dice, la musica è tutto ciò che può dargli.
Di Meryl Streep e di quanto sia brava a calarsi nei panni di qualsiasi personaggio senza risultare mai meno che perfetta, immagino si sia già detto e scritto di tutto.
Un’attrice capace, a 66 anni suonati, di essere non solo credibile ma straordinariamente in parte sia che si tratti di abitare gli austeri panni di Margaret Thatcher sia inguainata negli strettissimi pantaloni di pelle di questa rockeuse così buffa e male in arnese.

Voto: 7

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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