Venezia 72 – Giorno 9

Di Andrea Bosco
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Laurie Anderson

Laurie Anderson per Heart of a Dog

Come già accadde lo scorso anno con il dolcissimo Le dernier coup de marteau, si fa strada tra gli sbraiti degli stracultisti impegnati ad acclamare i bluff di Kaufman e di Skolimowski il candidato più piccolo, dimesso ed emozionalmente spiazzante del Concorso, antidoto salvifico e necessario a quella cappa di cinismo scesa nelle sale del Lido nel corso degli ultimi giorni. Trascinato dalla sua disarmante naïveté, Heart of a Dog di Laurie Anderson avvolge la platea in un tenero e caloroso abbraccio free-form fatto di suggestioni poetiche e di libere associazioni, di rimembranze personalissime e di memoria comune, di cordoglio e di ironia, compiendo una sorta di percorso di meditazione autogena che parte dall’elaborazione di un lutto recentissimo e privato (quello per la scomparsa dell’amatissima cagnetta del titolo e, per estensione, del compagno Lou Reed) per coinvolgere tutto e tutti in una seduta collettiva fuori e dentro la Morte, toccando precetti del Buddhismo tibetano (la struggente fantasia sullo stadio pre-reincarnativo del Bardo), citazioni a briglia sciolta (da Wittgenstein a David Foster Wallace), sprazzi di sdrammatizzante assurdità (la “carriera” musicale e pittorica dell’animale) e un approccio audiovisivo di totale anarchia, fra repertorio, home movies, installazioni e animazioni, che rivela non solo una nudità così sincera da farsi disorientante, ma anche un’insospettabile leggerezza di fondo che concilia tanto emotivamente con il senso di perdita quanto artisticamente con il linguaggio dell’avanguardia.

Secondo alcuni il cinema è un’altra cosa, secondo altri la beata ingenuità dell’insieme rischia di scadere in una sequela di banalità new age, ma la verità è che il film, mantenendosi in bilico fra l’una e l’altra degenerazione, raggiunge un perfetto equilibrio formale e contenutistico, e il fatto che la riflessione provenga da una performer sperimentale che ha fatto dell’algidità e dell’asetticità la propria maschera rende Heart of a Dog un’opera ancor più sorprendente.

Lorenzo Vigas per Desde Allà

Lorenzo Vigas per Desde Allá

Si ritorna in Sud America e nel brodo di cottura degli esordienti per accogliere l’uruguayano Desde allá, un’ulteriore passo della sezione principale fuori dalla palude delle certezze disilluse: Lorenzo Vigas, pupillo di Guillermo Arriaga, recupera i temi archetipici dell’infatuazione, del desiderio di possesso e del distacco (gli stessi trattati molto più superficialmente da Anomalisa, in fin dei conti), tratteggiando la dinamica servo/padrone e i capovolgimenti gerarchici alla base della relazione fra un solitario adescatore di mezza età (Alfredo Castro, eccelso, che torna in un ruolo molto simile a quello di Post mortem e che conferma la sua eccezionale abilità di rendere umano il mostruoso e mostruoso l’umano) e il delinquentello dei sobborghi oggetto della sua ossessione (il debuttante Luis Silva, bravissimo).



Vigas ritrae con sensibilità e con delicatezza la personalità di un inadatto a vivere capace di affrontare la realtà e i sentimenti soltanto “da lontano” (come recita il titolo), il legame fra i due protagonisti assume sfumature inconsuete e spiazzanti sovvertimenti di ruolo, la messinscena è sobria, rigorosa e – programmaticamente, viste le premesse – lucidamente distaccata, e anche se non si respira quella grande aria di novità e certi passaggi risultano un po’ forzati (la risoluzione cruenta del conflitto edipico, per esempio) si tratta comunque di un’opera prima di insolito coraggio e di indubbio spessore.

Atom Egoyan e Bruno Ganz per The Remember

Atom Egoyan e Bruno Ganz per The Remember

Se la Settimana della Critica si conclude incassando la sufficienza abbondante di The Return, rassegnato e gelido ritratto delle contraddizioni e delle metamorfosi di Singapore attraverso la storia dell’impossibile riadattamento alla società di un prigioniero politico dopo decenni di detenzione, testimonianza toccante e senza compromessi di sorta, ma anche penalizzata da sbavature evitabili (le superflue scene oniriche), il Concorso va a toccare i tasti dolenti della questione ebraica e dell’Olocausto con il thriller ottuagenario Remember, ma la superficialità e il calcolo con cui essi (ed altri massimi sistemi, come la persistenza della memoria e l’ambiguità della retribuzione) vengono piegati alla costruzione di un enigma a metà fra I ragazzi venuti dal Brasile e Memento impediscono di prendere davvero sul serio l’assunto. Resta l’impressione di un meccanismo ben congegnato ma pieno di cadute di tono (il confronto con lo sceriffo neo-nazista su tutti) e di ridondanze (i suoni e gli oggetti circostanti che, fra cani abbaianti, docce, vagoni piombati e altro ancora, rievocano costantemente l’orrore del lager), culminante in un finale che si vorrebbe di effetto dirompente ma che è già intuibile dall’inizio.

Christopher Plummer, ormai sulla soglia dei novant’anni, è comunque notevolissimo (e nelle scene seduto al piano tocca vertici di assoluta magia) e regge la pellicola interamente sulle sue spalle, ma l’Atom Egoyan dei brividi autentici de Il viaggio di Felicia e della dimensione etica di Ararat resta oggi soltanto un ricordo.

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