Se il percorso dei nostrani aspiranti al Leone resta pericolosamente in salita, fra la vanità di Guadagnino, l’appannamento di Bellocchio e il formalismo di Messina, è dalla divisione non competitiva che continuano ad affacciarsi, dopo l’eccellente doc di Pannone e l’accoglienza trionfale tributata a Caligari, i risultati più convincenti: non fa eccezione, come ampiamente previsto, la nuova sortita nella non-fiction di Franco Maresco, l’omaggio che il co-autore di CinicoTv ha tributato all’amico e nume ispiratore Franco Scaldati e che rappresenta non solo un profilo biografico privato e artistico del più importante esponente dell’avanguardia palermitana, ma anche una cronologia delle metamorfosi sociopolitiche della realtà siciliana, dal crogiuolo post-sessantottino della scena teatrale off all’ascesa di Cosa Nostra, dall’instaurarsi subdolo del berlusconismo all’abisso post-ideologico del nuovo secolo.
Gli uomini di questa città io non li conosco è quindi opera personale e generazionale, umilissima nel suo riconoscere e ammettere il forte debito del proprio artefice nei confronti di un mentore rimasto nell’ombra e spavalda – fin troppo, come nella gratuita, ancorché goduriosa, stoccata alla “discesa in campo più vergognosa della nostra Storia – nella propria militanza contro l’istupidimento generale (agghiacciante, e già di culto, l’epilogo in cui, a due anni dalla sua scomparsa, Scaldati sembra già sparito dalla memoria e in cui viene incomprensibilmente tirato in ballo Stefano Accorsi), commovente, come nella testimonianza dello storico collaboratore Gaspare Cucinella, ed esilarante – assolutamente impagabile la testimonianza finale di Luigi Maria Burruano -, un percorso prezioso, ravvicinato e compendiario all’interno della vita (tormentata, generosa e inquieta) e dell’arte (eterodossa e disperata) del protagonista di un Paese reale da riscoprire.
Le Giornate degli Autori, d’altro canto, mettono a segno il loro primo centro perfetto in chiusura di programma con il cinese Underground Fragrance, notevolissima e microscopica tragedia suburbana all’ombra della speculazione edilizia che miscela il rigore e la purezza laconica dello Tsai Ming-Liang dei bei tempi andati (d’altronde l’esordiente regista Song Pengfei nasce come suo aiuto regista) con il romanticismo viscerale e discreto di Wong Kar-Wai, tratteggiando il ritratto di una Pechino cannibale e disumana, fragile e cagionevole dietro la maschera sana e asettica – la stessa che si vedrà successivamente in Concorso con Behemoth – di un progresso economico di pura facciata.
Si resta nella Cina più profonda e sconosciuta affrontando il terzo vertice assoluto della competizione principale, ultima cuspide (dopo Sokurov e Gitai) di una triade sperimentale che ha sancito la netta superiorità di un Cinema Altro, antinarrativo, visionario e totalmente immersivo rispetto al resto della selezione. Behemoth di Zhao Liang è un poema civile allegorico, apocalittico, immaginifico e necessario che si propone come laica Divina Commedia moderna, divisa fra l’Inferno delle miniere di ferro, mostro possente e vorace quanto la creatura biblica che dà titolo al film, il Purgatorio degli ospedali che accolgono centinaia di operai distrutti dalle malattie polmonari e il Paradiso paradossale dei chilometrici, imponenti centri residenziali eretti in mezzo al nulla e ancora spettralmente disabitati.
L’esito è una sequenza ininterrotta di immagini frastornanti che passano dall’incantevole (i paesaggi incontaminati che circondano i cantieri) all’atroce (la disperazione dei minatori ricoverati e delle loro famiglie), un esempio di miracolosa simbiosi di militanza senza compromessi e di meditazione estetica che scuote e ipnotizza come l’Herzog più scatenato, di sicuro la rivelazione più imprescindibile che la Mostra abbia avuto il coraggio di inserire in programma.
E dopo un’intera seconda metà di programmazione giornaliera buttata via con Il decalogo di Vasco a occupare ingiustificatamente ambo gli slot serali della Sala Darsena, solitamente riservati alla sezione principale o ai più altisonanti documentari Fuori Concorso, e a sguinzagliare per il Lido centinaia di adepti bercianti e mezzi ciucchi che hanno, fra le altre cose, ridotto le zone attigue al red carpet un’autentica pattumiera, arriva la mattina successiva a ricucire le ferite di un Concorso troppo azzoppato dalle incertezze iniziali per dirsi totalmente equilibrato l’attesissimo ritorno alla finzione di Giuseppe M. Gaudino dai tempi del mirabile e arcano esordio di Giro di lune tra terra e mare. Per amor vostro smorza il labirintico ermetismo della pellicola precedente e presenta un ritratto più accessibile di Napoli e dei suoi misteri, pur non rinunciando alle usuali stravaganze (animazioni, tableaux vivants, accelerazioni, parentesi musicali – con eccellenti composizioni folk degli Epsilon Indi -, scene oniriche, flashback stranianti) e dando vita a un intreccio volutamente slabbrato, riflessivo e incentrato, più che su una concatenazione di eventi, sulle contraddizioni e sui sommovimenti emotivi di una fauna di personaggi calata in una realtà popolare dominata dall’omertà e dall’usura.
Ne risulta un film tanto eccentrico quanto pulsante che colma le fragilità di struttura con un’energia intrinseca dirompente e contagiosa, un incantesimo sottoproletario di grande fascino e un caleidoscopio sinestetico di suggestioni disarmanti che può contare sulla performance maiuscola di una Valeria Golino già sicura Coppa Volpi – e sarebbe la seconda -, interprete ideale e insostituibile di un ruolo di popolaresca, combattiva umanità degno dei maggiori personaggi di Anna Magnani.
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