Everest

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“Perché scalare l’Everest? Perché esiste” – George Mallory



Perché, specie dopo il clamoroso tandem di Gravity e di Birdman, assegnare a un film come Everest il ruolo di pellicola di apertura del più longevo Festival del Cinema del mondo?
Dopo la roboante indifferenza e la gelida accoglienza – no pun intended – incassate al termine della première veneziana, viene da credere che l’eventuale risposta del direttore Alberto Barbera, vistosi “usurpare” da New York l’attesissimo The Walk di Robert Zemeckis, e il laconico commento dello sfortunato alpinista britannico citato in apertura coincidano.

Un conto, però, è il valore squisitamente umano dell’impresa, requisito indispensabile della secolare ambizione antropica di infrangere le barriere naturali, un altro è la supposta esigenza della sua trattazione artistica, che non solo rischia di essere ridotta a un mero sforzo produttivo privo della benché minima sostanza – quello, per esempio, che ha portato all’acclamazione gratuita ed esagerata di un vacuo giocattolone come Mad Max: Fury Road -, ma che, a meno di non essere l’Herzog di Fitzcarraldo o il Kevin McDonald de La morte sospesa, disinnesca ogni senso di stupore e di coinvolgimento quando l’artefazione si fa asfissiante.

L’esistenza, dicevamo, di un’operazione come Everest si giustifica esclusivamente con quei pochi metri di passerella stesi ai galà di turno, e, nel caso specifico del Lido, con lo scopo di rimpolpare e internazionalizzare un red carpet non proprio sovrabbondante con un ensemble di divi a fare quadrato (lo stesso principio dell’altro bluff da box office dell’edizione, ossia Black Mass): per il resto, carente tanto dal punto di vista biecamente intrattenitivo, quanto – ma i dubbi erano ben pochi, considerati i modesti precedenti di Contraband e di Cani sciolti – come occasione per l’islandese Baltasar Kormákur di rivelarsi in veste di autore action ormai collaudato, Everest discende direttamente dal canone desueto del disaster movie corale à la Airport, sovrappopolato di celebrità scarsamente assortite con i cui alter ego di cartapesta lo spettatore è chiamato a identificarsi e sulla cui sopravvivenza è cinicamente portato a scommettere, ma c’è ben poco per cui esaltarsi fra caratterizzazioni antidiluviane (il texano spaccone ma fragile di Josh Brolin, lo scapicollato fricchettone di Jake Gyllenhall, lo scalognato rachitico di John Hawkes, anche se il top restano le mogliettine scalpitanti delle svogliatissime Keira Knightley e Robin Wright), uno sviluppo tedioso e a rilento che passa dall’adventure sonnacchioso della prima metà al survivalistico esagitato della seconda, una confezione pulitina che alterna soprattutto estetizzanti panoramiche aeree – niente che non si possa già trovare nel di gran lunga superiore documentario omonimo del 1998, girato davvero e non, a differenza di questo, soltanto convertito in formato IMAX  – a sequenze dinamiche male orchestrate (senza tirare in ballo un 3D che più accessorio non si potrebbe), momenti ai confini del trash, come la repentina resurrezione innescata dai flashback a ralenti della famigliola in stile Mulino Bianco, e dialoghi piattissimi a base di pipponi motivazionali e di gradassate assortite (già cult la lapidaria sparata secondo cui “a contare non è l’altitudine, ma l’attitudine”).

In questo senso, più che all’anonimo mestiere del regista, la paternità dell’opera è da ascriversi agli sceneggiatori William Nicholson e Simon Beaufoy, artefici dei più enfatici e ignoranti calvari del cinema di consumo del nuovo secolo, da Il gladiatore e Unbroken (il primo) a The Millionaire e 127 ore (il secondo), di cui il compitino di Kormákur pare la versione innevata e a più voci. Come nel caso dell’one-man-show con James Franco, anche qui sfugge un punto del discorso diverso dalla semplice, sterile cronaca degli eventi condita da tocchi insistentemente melodrammatici (la fine del povero Jason Clarke è puro torture porn), con l’aggravante di uno studio dei personaggi pressoché inesistente che riduce il nutritissimo cast a un magma indifferenziato di ragioni sommarie (fuga dalla routine, ricerca di rivalsa, volontà di potenza e altre ovvietà) e con un senso dell’epica che confonde il grandioso – si pensi all’arrivo in cima alla montagna, reso con sconsolante assenza di meraviglia – con il tonitruante.

Peccato, perché dal film sembrava evincere una riflessione sui limiti dell’Uomo comune alle prese con la Natura e con se stesso, come dimostra lo scontro fra l’attitudine “chioccesca” e possibilista del personaggio di Jason Clarke, pronto ad ammettere principianti nelle proprie cordate, con quella elitarista del rivale interpretato da Gyllenhall – confronto che pure si conclude in parità -, ma Everest si accontenta di un’indistinta identità di generico blockbuster da schiaffare in multisala senza troppi complimenti.

Voto 4

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