Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Luglio 2006. Leonardo Zuliani (Davide Giordano) è ufficialmente scomparso.
Da Trastevere la clamorosa notizia diventa vera e propria emergenza nazionale mentre un innumerevole gruppo di seguaci si accalca davanti alla casa del giovane. La mamma è disperata, il quartiere paralizzato. Alla televisione ogni canale parla di lui e tutte le autorità esprimono la loro solidarietà alla famiglia. Sono in tanti a non volerci credere, sperando che forse sia un’altra delle sue trovate.
Un documentario ripercorre la sua storia e scopriamo così che Leonardo è un genio della comunicazione, un fumettista di successo e uno stilista visionario, nonché uno scrittore di grido e un rinomato attivista dei diritti civili. Oltre che un inguaribile antisemita.
Dopo essersi fatto le ossa come assistente alla regia di Ozpetek, Alberto Caviglia esordisce nel lungometraggio con questa originale commedia, presentata da poco nella sezione Orizzonti all’ultimo Festival di Venezia. E’ importante sottolineare, in primissima istanza, la sua natura di commedia perché Pecore in erba rappresenta almeno una delle possibili vie di fuga dal vicolo cieco in cui, ormai da anni, quasi tutti i film che si prefiggano lo scopo di far ridere in Italia sono soliti imboccare e che consiste, in buona sostanza, nel non riuscirci quasi mai.
Il film di Caviglia sorprende invece fin da subito proprio per il suo trasgredire più o meno a tutte le regole non scritte che, qui da noi, sono solite fiaccare qualsiasi pellicola leggera di area mainstream, imponendo massicce dosi di medietà buonista e sovente anche il ricorso coatto a determinati attori, per lo più Edoardo Leo e Raoul Bova.
Pecore in erba invece vince (e soprattutto fa ridere) perché, evidentemente anche in virtù del suo basso profilo produttivo, due o tre rischi se li prende. Innanzitutto adottando una struttura narrativa – quella del mockumentary – alla quale siamo poco avvezzi e che, di fatto, gli permette di operare un surreale stravolgimento della realtà che forse non gli sarebbe stato possibile attuare rimanendo nei rigidi confini della fiction. Nel film infatti l’antisemitismo viene mostrato non come l’atrocità ideologica che purtroppo tutti conosciamo, bensì come un diritto negato al protagonista da una serie di movimenti ideologici che combattono “ingiustamente” l’odio (“l’antisemita è una persona che ama odiare, quindi impedirglielo è un po’ come impedirgli di amare” dice uno dei tanti sostenitori di Leonardo nel film).
Chiaro quindi che i punti di riferimento del giovane autore siano da ricercarsi più all’estero che non in casa. Ma se il nume tutelare di Caviglia sembra essere Sacha Baron Cohen, di cui riprende la scorrettezza politica seppure epurata dagli eccessi più eclatanti, risulta evidente come l’autore tenga bene a mente sia la lezione di nonsense dei Monthy Python (la scena in cui la sede di un movimento di giovani di estrema sinistra viene rappresentata alla stregua di un circolo canottieri è, in questo senso, da antologia) sia dello Zelig alleniano, antesignano indiscusso di qualsiasi finto documentario virato in chiave comica.
E’ interessante inoltre come, rifiutando uno stile cinematografico forte, Caviglia persegua un’idea di cinema così solida e, soprattutto, lucida.
Senza rinunciare mai al fine ludico dell’operazione, l’autore firma il film che avrebbe potuto fare Maccio Capatonda con Italiano medio se solo avesse avuto un po’ più di coraggio.
Non sembri un caso la partecipazione al progetto di così tanti personaggi famosi (si va da Fabio Fazio a Freccero, da De Bortoli a Mentana passando per un insolitamente disponibile Vittorio Sgarbi) chiamati a recitare il ruolo di se stessi ma, più che altro, presenti in veste di garanti della bontà di uno script che, senza qualche testimonial di rilievo, avrebbe corso il serio rischio di rimanere su carta.
Per fortuna, invece, Pecore in erba è una felicissima realtà, di quelle che fanno ben sperare per il futuro di un cinema italiano che, troppo spesso, sembra vivere di rendita sui risultati di pochi (i soliti Garrone e Sorrentino), quasi dimenticando che la nostra storia non è fatta solo di Oscar al miglior film straniero ma anche di opere piccole e coraggiose come questa, che riescono a riflettere sulla società e sulle sue contraddizioni senza smettere per forza di sorridere. E soprattutto senza decidere di sottostare al giogo del facile box office.
Voto 7
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