Straight Outta Compton

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Siamo nella prima metà degli anni ottanta e le strade di Compton, in California, sono tra le più pericolose di tutto il paese quando tre ragazzi del posto decidono di trasferire le loro esperienze di vita nella forma più cruda e brutale di rap che si fosse ascoltato fino ad allora. Il risultato è un pugno di canzoni che, schierandosi apertamente contro l’eccessivo sfoggio di autorità delle forze dell’ordine, riesce a dar voce a una generazione fino ad allora rimasta in silenzio.
Seguendo la meteoritica ascesa e caduta dei N.W.A. (acronimo per Niggaz With Attitude), Straight Outta Compton racconta l’incredibile storia di come Eazy-E, Dr. Dre e Ice Cube hanno rivoluzionato per sempre la musica e la cultura pop nel momento in cui hanno detto al mondo la verità sulla vita nel ghetto, accendendo la miccia per una vera e propria guerra culturale.



In effetti non erano molte le possibilità che un film come Straight Outta Compton riuscisse ad avere una distribuzione anche in Italia. Se il biopic della crew che ha di fatto inventato il gangsta rap trova infatti una sua piena ragion d’essere negli USA (dove ha fatto sfaceli al box office), il pubblico italiano, almeno sulla carta, dovrebbe subirne molto meno il fascino. Ci sono però almeno un paio di considerazioni suscettibili di smentire questa ipotesi.
La prima è legata all’incredibile ascesa che l’hip hop ha avuto da noi nell’ultimo decennio, sebbene irrimediabilmente impoverito nei contenuti dai goffi scimmiottamenti di gente come Fedez e Gue Pequeno.
In quest’ottica la visione di Straight Outta Compton acquista un senso, se non altro nel ristabilire un sistema di parametri utile ad interpretare in maniera corretta una cultura nata altrove e figlia di un sistema sociale lontanissimo dal nostro, pieno di contraddizioni – non che l’Italia non viva anch’essa di contraddizioni, sono solo differenti – e gravato da una questione razziale mai del tutto archiviata.
Problematica che l’hip hop, di cui i macchinoni e le catene d’oro al collo rappresentano solo il lato più vistoso e brillante, ha contribuito in maniera così massiccia a documentare e combattere.
Poi c’è un altro discorso, più relativo al film e alla sua riuscita. Nonostante sia fisicamente prodotto dagli stessi personaggi di cui racconta le vicissitudini (Dr. Dre e Ice Cube), Straight Outta Compton riesce a evitare, per quanto sia possibile in un prodotto mainstream, il rischio agiografia mettendone in evidenza luci e ombre senza eccessivi carichi di indulgenza a posteriori.
Del resto la breve stagione dei N.W.A. va vista più come la storia della nascita di un sistema alternativo di produzione dei contenuti (“il rap è la CNN dei neri” diceva Chuck D dei Public Enemy) che non come la semplice biografia di un gruppo di artisti.

Il regista F. Gary Gray questo concetto ce l’ha ben chiaro e, del biopic classico, prende giusto la struttura narrativa della parabola. Il suo interesse però è altrove, mirato a costruire l’apologo sociale di tre ragazzi che fanno di tutto per uscire da un quotidiano segnato da miseria e criminalità e che, per un attimo, sembrano anche esserci riusciti. Se non fosse che quel quotidiano non è a Compton, ma nel loro DNA e l’avidità che li spinge a litigare su chi debba guadagnare più soldi e a separarsi per fondare ognuno la casa discografica di cui poter essere il leader non è altro che il trasferimento delle dinamiche che regolano il ghetto all’interno del music business.
Questo processo è evidente nella scena in cui Ice Cube rivendica un anticipo al suo discografico e, di fronte ad un diniego, torna con una mazza da baseball e gli sfascia l’ufficio. E’ la cultura di strada che fa il suo ingresso definitivo nel “palazzo”.
In questo senso il film funziona a dovere e, se dovessimo trovargli un solo difetto, forse è nell’eccessivo manicheismo adottato nel contrapporre bianchi e neri (i poliziotti di Los Angeles sono descritti come esseri mitologici per metà uomini e metà manganelli) e che raggiunge il suo apice nel personaggio interpretato da Paul Giamatti, lo scaltro manager ebreo che riesce ad arricchirsi approfittando della buona fede e, soprattutto, della naïveté dei protagonisti. Lo stile è crudo come ci si aspetta che debba essere – con tutto il corredo di droghe, armi e donne trattate come accessori – così come il linguaggio (non si sentivano tanti “nigga” in un film dai tempi di Fa’ la cosa giusta) e, seppure gravato da una durata un po’ eccessiva, Straight Outta Compton può dirsi un film riuscito nel suo tentativo di ibridare biopic ed epica criminale.
Per chi se ne intendesse di hip hop, poi, il discorso è diverso e il film è una vera manna dal cielo, tra una colonna sonora piena di tutte le hit dell’epoca e i vari accenni a personaggi cardine di una stagione fondamentale della musica black come Tupac Shakur e Snoop Dogg.

Voto 7

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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