Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
“Horror is the removal of masks” – Robert Bloch
Sotto le infinite, sbalorditive maschere di Lon Chaney, dalla pietosa deformità di Quasimodo al ghigno sfigurato del Fantasma dell’Opera, dalle menomazioni dello Sconosciuto al trasformismo transgenerazionale di Mister Wu, era comunque facile intravedere il viso sfaccettato e travagliato dell’Uomo comune, capace di emergere dai chili di makeup in tutta la sua combinazione di ferocia e di fragilità, di brutalità e di dolcezza, di crudeltà e di desolazione.
È lecito, dunque, considerare il suo discepolo Johnny Depp, alla luce di una carriera costellata di freak, di clown o di semplici eccentrici, l’Uomo dai Mille Volti dei nostri tempi?
Per un po’ è stato così, dietro la malinconica mostruosità di Edward mani di forbice, la disarmante stralunatezza di Benny & Joon o l’incubo allucinato di Paura e delirio a Las Vegas, ma quando la platea si ingrossa e le poche file del cineclub non accontentano più, allora occorre trasferirsi altrove, offrire un numero sufficiente di poltroncine e assicurarsi che tutti, adulti e bambini, indipendentemente dal posto a sedere, riescano a godersi lo spettacolo.
Così, com’è noto, lasciate alle spalle le preziose collaborazioni con Jarmusch e con Kusturica, la benedizione di Marlon Brando e la dignità di un culto sotterraneo a ingresso ristretto, a Depp si è spalancata la pista del circo, dove, fra pirati formato Disney, ennesime declinazioni burtoniane e pagliacciate di vario genere, la più grande promessa non mantenuta del vivaio cinealternativo dell’America di fine secolo continua a esibirsi nella sua sempre più sbiadita parodia di se stesso.
E nonostante i buoni auspici iniziali, nonostante gli insistiti, preconcetti rumori di resurrezione artistica, la campagna di rilancio reputazionale e commerciale di Depp non si discosta più di tanto dalle indegne pantomime del suo ultimo, baracconesco quindicennio e si riduce a farsi scenario di uno show attoriale tutto di superficie cui non bastano protesi, accenti e tic assortiti per dissimulare una monodimensionalità di fondo assimilabile a quella di un goffo, esuberante travestimento di carnevale.
Risulta difficile, quindi, elevare Black Mass a un’operazione diversa dal banale film-vetrina ritagliato su misura per il proprio strabordante protagonista, qui nei panni di un sanguinario, paranoico delinquente bostoniano realmente esistito – il temibile James “Whitey” Bulger – che, più che ancorato alla verità biografica, assomiglia all’ibrido rimasticato di decine di illustri predecessori, dal Joe Pesci più scorsesiano (specie nella sua indiscernibilità di buffonaggine e intimidazione) al James Cagney più guascone. Allo stesso modo e presa a se stante, l’opera terza di Scott Cooper non sa mai prendere una direzione precisa, limitandosi a sfiorare modelli impossibili come l’epopea degradante di Quei bravi ragazzi o, ancor più, l’impianto morale de Gli angeli con la faccia sporca di Curtiz, seguendo uno svolgimento aneddotico e accumulando personaggi secondari superflui all’economia del racconto (perché il fratello senatore di Bulger – un Benedict Cumberbatch come al solito inadeguato al di fuori del piccolo schermo – non entra mai nel vivo delle vicende?) o relegati a mera rappresentanza (che funzione ha la moglie – Dakota Johnson, liquidata dopo poco più di mezz’ora – se non quella di fare da cornice all’episodio della morte del figlio?), incerti se assurgere a figure paritarie di un ritratto corale e panoramico su corruzione e riscatto, come testimonia un primo atto che vede in scena soprattutto gli ex-scagnozzi pentiti di Bulger (il Jesse Plemons di Breaking Bad, conciato come uno scagnozzo di Dick Tracy, e il Rory Cochrane di Csi: Miami), presto sostituito dalla fredda, ridondante e a tratti compiaciuta enumerazione di efferatezze compiute da Bulger buttate lì senza una progressione climatica o un approfondimento sulle meccaniche criminali, ma solo per accumulo (particolarmente sgradevole, in questo senso, la breve sequenza che coinvolge Juno Temple).
L’esito è un film pressoché privo di baricentro e di sviluppo che riesce a sembrare contemporaneamente pieno di eventi fino a scoppiare e ricco di spazi rimasti vuoti, troppo impegnato a barcamenarsi fra sottotrame più o meno accennate – ne paga sensibilmente meno lo scotto l’agente Connolly di Joel Edgerton, amico di infanzia e “alleato” di Bulger – per ambire all’affresco nichilista del marcio che infesta cosmicamente tanto il Bene quanto il Male, sacrificando gli spunti più succosi (nel modesto parterre femminile sarebbe dovuta spiccare la “pupa del boss” Sienna Miller, eliminata in fase di montaggio) a vantaggio, come nell’inutile sequenza della cena a casa di Connolly, degli assoli della monocorde voce solista di Depp.
Il resto, ammesso che si pretenda di trovare qualche cosa di nuovo e di interessante nello studio antropologico dei rituali della malavita organizzata o nella riflessione sull’impossibilità dell’individuo di fuggire dalle proprie origini, è pura routine e riproposizione di cliché che decenni di gangster movie ci hanno presentato in forma di gran lunga più originale: al termine dell’imminente stagione premi, come già accaduto nel clima di indifferenza dell’anteprima veneziana, di Black Mass non si sentirà più parlare.
Voto 4
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