Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Il 30 settembre del 1955, nel tardo pomeriggio, una Ford Tudor nera tagliava la strada a una Porsche Spyder 550 nei pressi di Cholame, California. Alla guida di quest’ultima c’era il 24enne James Dean, astro nascente di Hollywood, che si recava a una gara automobilistica. La sua fine coincise con l’inizio di una seconda vita, quella da leggenda del cinema. Icona culturale ancor prima che estetica, emblema di un reale anticonformismo, il timido e sfuggente Jimmy Dean fu lo specchio di una generazione complessa come era quella americana postbellica. Ventenne sofferente e ragazzo della porta accanto che mascherava il suo enorme disagio nei confronti della vita attraverso sfide e provocazioni, con i suoi tre film in cui risulta accreditato, fu un caso unico di perfetta identificazione tra personaggio e attore.
E il regista e fotografo olandese Anton Corbijn non si è lasciato sfuggire l’opportunità di realizzare un ritratto del Dean ultimo divo proprio a pochi mesi dalla sua morte, utilizzando come pretesto l’amicizia tra l’attore (Dane DeHaan) e il fotografo Dennis Stock (Robert Pattinson). Il servizio fotografico che Stock riuscì poi a vendere al magazine Life, portò i due giovani a intraprendere insieme un viaggio attraverso gli Stati Uniti – da Los Angeles a New York fino in Indiana, luogo in cui Dean era cresciuto – che avrebbe cambiato per sempre la vita del giovane fotografo e prodotto alcune delle immagini di Dean che sarebbero divenute tra le più note e rappresentative di quell’epoca.
L’autore di The American, A Most Wanted Man e dell’intenso dramma biografico sulla vita del leader dei Joy Division Ian Curtis, Control, sceglie nuovamente di raccontare, con l’eleganza formale che contraddistingue il suo stile, il dramma personale di un artista nel momento in cui la sua carriera è a un passo dal successo. James come Ian: entrambi tormentati, entrambi scomparsi all’apice del successo ed entrambi destinati all’immortalità, loro malgrado.
Presentato come Evento Speciale all’ultima Berlinale, Life è un film di attori denso e dalle forti atmosfere malinconiche. Dane DeHaan mette in scena un somigliantissimo James Dean tanto sensibile ed emotivo quanto sfuggente con il sistema Hollywoodiano (perfettamente incarnato dal Jack Warner – Ben Kingsley, che in originale parla con il forte accento yiddish che contraddistingueva il dispotico mogul dell’industria cinematografica) e Robert Pattinson non è da meno, capace di mettersi da parte e di fare da spalla al suo collega, restituendo perfettamente l’insoddisfazione personale e lavorativa del suo personaggio, insieme con l’affannata ricerca di un’affermazione professionale.
L’occhio di Dennis Stock si fonde fino a diventare un tutt’uno con quello di Corbijn che cerca di fotografare un Dean non convenzionale e a proprio agio tra le pareti della sperduta fattoria dell’Indiana in cui è cresciuto. L’andatura flemmatica con cui gli eventi si succedono in Life è contemporaneamente il pregio e il difetto di una pellicola che non si propone di ridiscutere o di esaminare aspetti ancora poco noti della vita di Dean, bensì di raccontarli in un modo prevalentemente algido e visuale, esteticamente impeccabile ma forse eccessivamente esile dal punto di vista drammaturgico.
Voto 6,5
Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.
Robert Pattinson e Dane DeHaan nell’algido biopic su un inedito James Dean diretto da Anton Corbijn.
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