Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Poco più di un anno fa George Clooney aveva dedicato il suo Monuments Men al lavoro svolto da una squadra americana incaricata di ritrovare opere trafugate dai nazisti ai musei e alle famiglie nell’immediato dopoguerra. Woman in Gold, tratto dal libro The Lady in Gold della giornalista del Los Angeles Time Anne-Marie O’Connor, aggiunge un ulteriore tassello alla vicenda, riportandola all’attualità e declinando la vicenda in modo più intimo e personale. Ma qui si ferma. La storia, vera, è quella di Maria Altmann, giovane austriaca di origini ebraiche che si vede costretta a fuggire negli States quando il regime nazista occupa Vienna. Sessant’anni dopo, ormai cittadina americana quasi ottantenne, decide di approfittare di un’apertura del governo austriaco in fatto di restituzione di opere d’arte strappate ai privati durante il regime di Hitler e cercare di ottenere il celebre quadro di Klimt noto come Ritratto di Adele Bloch-Bauer, per il quale aveva posato sua zia e che era appartenuto alla sua famiglia. Ma sia lei che il suo legale, il giovane Randol Shoenberg (un Ryan Reynolds non pervenuto), si ritroveranno a dover fare i conti con l’ostruzionismo delle autorità competenti.
Gli elementi per realizzare un buon film c’erano tutti: uno dei quadri più conosciuti e apprezzati al mondo, il magnifico ritratto in cui Gustav Klimt, nel 1907, immortalò la sofisticata bellezza di Adele Bloch-Bauer, regina dei salotti viennesi; una vicenda di intrighi internazionali durata sessant’anni che ha inizio durante la Shoah ed Helen Mirren nel ruolo della donna che, con la sua ostinazione, si mise contro il governo austriaco per ottenere una vittoria più etica che giuridica. Ma Woman in Gold non sembra decollare mai. Il connubio tra legal-thriller e buddy movie non riesce a trovare un equilibrio e il fatto che la narrazione si dipani attraverso due linee temporali che corrono parallele e separate da sessanta anni di Storia, interrompe con raccordi bruschi una fruizione altrimenti più fluida.
Lo schema è quello del ben più riuscito Philomena, con una caparbia donna in età avanzata che, a distanza di anni, si rimette sulle tracce di un doloroso episodio che le ha cambiato la vita, aiutata da un giovane ma ben più pratico ed esperto aiutante. Ma Simon Curtis (Marilyn) non ha la profondità di Stephen Frears, Ryan Reynolds non si avvicina nemmeno lontanamente alla presenza scenica e al piglio di Steve Coogan e Helen Mirren, che per Frears è stata una memorabile Elisabetta II, qui si limita a seguire un copione già non brillante in partenza, senza particolari guizzi. Sicuramente le origini ebreo-polacche di Curtis hanno giocato un ruolo importante nella scelta della vicenda da narrare, ma proprio per questa sua vicinanza etnico-culturale ai fatti, era lecito aspettarsi un po’ più di sentimento.
Voto 5
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