Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Ben Whittaker (Robert De Niro) è un settantenne vedovo e profondamente annoiato dalla sua vita da pensionato. Desideroso di ripartire da zero, accetta quindi di buon grado la partecipazione a un insolito programma per stagisti senior presso una società emergente che vende online articoli d’abbigliamento. Finisce col diventare assistente personale della giovane fondatrice dell’azienda Jules (Anne Hathaway) la quale, sulle prime riluttante, scopre ben presto un’inaspettata sintonia con l’attempato stagista che, ben lungi dall’essere un peso, si rivela un utile consigliere sia in ambito professionale che per quanto riguarda alcuni delicati problemi di natura più strettamente personale.
Poche storie, Nancy Meyers è proprio di un’altro livello. Autrice di solidissima scuola che, con un occhio rivolto al passato e i piedi ben piantati nel presente, costruisce con le sue commedie un ideale ponte generazionale tra Peter Bogdanovich e Judd Apatow passando per James L.Brooks. All’interno delle sue sceneggiature, classico e moderno si rincorrono per incrociarsi spesso in prossimità degli angoli a lato delle inquadrature principali, leggermente fuori campo e, a volte, addirittura dentro singole battute che, già da sole, valgono il prezzo del biglietto.
Se si esclude l’ancora acerbo esordio alla regia di Genitori in trappola, in ogni suo film l’autrice è sempre riuscita a portare avanti con enorme garbo e una coerenza invidiabile, una lenta e lucida ridefinizione della sophisticated comedy di stampo classico che scorre nei solchi tracciati anni orsono dalla compianta e insuperata Nora Ephron, inarrivabile nume tutelare di chiunque si approcci al genere leggero.
Il risultato sono un pugno di opere capaci di divertire senza mai rinunciare alla sostanza, che per l’autrice si sviluppa per lo più attorno ad alcuni snodi centrali del vivere oggi.
Che sia l’annosa questione dell’incomunicabilità tra i sessi (What Women Want) o il dilagare del fenomeno delle famiglie allargate (E’ complicato) la Meyers si rivela maestra nel creare materiale dall’alto coefficiente comico senza però mai cedere alle lusinghe del trivio spiccio o anche solo adagiarsi sui meccanismi della facile battuta.
E se è vero che questo Lo stagista inaspettato si attesta su livelli un po’ più bassi rispetto ai suoi standard abituali, è altrettanto vero che lo stile risulta intatto e invariato.
L’autrice parte dalla descrizione di una moderna start up – una di quelle società nascenti piene di possibilità, open space e impiegati tutti molto sorridenti (seppure stressatissimi) e incredibilmente hipster – e vi inserisce un elemento di disturbo, in questo caso uno stagista settantenne.
Per quanto però l’incontro/scontro iniziale tra quest’ultimo e la giovane workaholic Anne Hathaway (bravissima l’attrice nel guadagnarsi a pieni voti il titolo di “Meg Ryan degli anni dieci”) funga da motore per il maggior numero di risate, è chiaro fin da subito come, al netto degli scontati misunderstanding dovuti al gap generazionale, tra i due ci sia ben altro.
In quest’ottica il rapporto di scambio che si viene a creare tra i protagonisti è molto simile a quello che si instaurava tra Kate Winslet e Eli Wallach ne L’amore non va in vacanza (ad oggi, il vero capolavoro della Meyers) e assume le forme di un sentito elogio di qualsiasi forma di old school, rappresentata da un impeccabile De Niro, in completo elegante e ventiquattrore, per nulla a disagio in mezzo a uno stuolo di neolaureati in comunicazione ossessionati dalla cultura del casual.
Allo stesso modo in cui la Meyers prende la leggerezza vecchio stampo di un Frank Capra per applicarla alla trattazione di argomenti indiscutibilmente moderni, così il vecchio Ben smonta il sarcasmo saccente dei suoi giovani colleghi dimostrando loro come i vecchi metodi di una volta siano tuttora applicabili con successo a qualsiasi contesto professionale. In altre parole, cambiano gli strumenti (tablet, PC, smartphone) ma le problematiche di fondo restano le stesse.
Se poc’anzi si accennava a un risultato non proprio all’altezza dei precedenti film dell’autrice è principalmente perché il giochino a tratti mostra un po’ la corda (certe svolte narrative sono un po’ troppo telefonate) e risente dell’eccessiva verbosità di alcuni passaggi che contribuiscono ad allungare un minutaggio che aveva ben pochi motivi di sforare le due ore.
Poi c’è un altro discorso che, mi rendo anche conto, è suscettibile di sconfinare nel troppo soggettivo ma, in effetti, vedere Robert De Niro relegato ormai da anni (diciamo da Ti presento i miei) al ruolo dell’attempato comprimario fa sempre male.
Soprattutto quando il suo corredo di smorfie e faccette gigione tende ad arricchirsi ulteriormente come in questo caso. Quindi sì, Lo stagista inaspettato resta nel complesso una piacevole visione. Ma solo a patto di non pensare mai, per quelle due ore, a qualsiasi cosa De Niro abbia fatto prima di Jackie Brown.
Voto 6,5
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