Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Il 2 novembre del 2011 è una data importante.
Silvio Berlusconi rassegna infatti le sue dimissioni da Presidente del Consiglio.
Appena una settimana prima, Benedetto XVI inizia a ragionare sulla possibilità di abbandonare anzitempo il seggio papale.
Incastrata tra questi due eventi c’è un’umanità allo sbando che, senza neanche rendersene conto, paga lo scotto di una totale mancanza di punti di riferimento e si insinua, strisciando sotto una pioggia incessante, tra gli ingranaggi di un Sistema che non fa più alcuna distinzione tra buoni e cattivi.
C’è il politico corrotto Malgradi (Pierfrancesco Favino) che si caccia in un guaio più grosso di lui a causa della sua malsana passione per le escort minorenni. C’è Numero 8 (Alessandro Borghi) giovane boss della mala di Ostia disposto a tutto pur di riuscire nel suo piano per trasformare il litorale laziale in una moderna Las Vegas. C’è poi Sebastiano (Elio Germano), viscido organizzatore di festini per VIP del tutto privo di spina dorsale. E c’è il Samurai (Claudio Amendola), un ex componente della banda della Magliana oramai diventato tramite occulto negli affari tra mafia e Stato.
Suburra è la cronistoria nerissima della settimana in cui i destini di questi quattro uomini senza qualità si incrociano quasi per caso, dando vita a una lotta senza quartiere in cui istituzioni e criminalità organizzata si svelano esattamente per come sono, così indissolubilmente legate le une all’altra.
Ognuno di questi quattro personaggi, in fondo, cerca solo di raggiungere il proprio obiettivo, che sia il varo di una legge o semplicemente il riuscire a restare vivo.
Ormai dovrebbe essere chiaro un po’ a tutti: il futuro del cinema, come del resto anche buona parte del suo passato, è nel genere.
Uno dei primi a capirlo è stato evidentemente Quentin Tarantino che, riscrivendone le regole dall’interno, è riuscito addirittura a cambiare la storia, lasciando morire Hitler alla fine del suo Bastardi senza gloria, in una delle scene iconicamente più forti del cinema di tutti i tempi.
Stefano Sollima – il cui valore di artigiano di lusso è sotto gli occhi di tutti sin dai tempi di A.C.A.B. – attinge più o meno allo stesso tipo di licenza artistica quando mette in relazione, forzandone la prossimità temporale, due assenze istituzionali fondamentali, per costruirvi attorno un affresco apocalittico di sconcertante lucidità che punta dritto al centro del cuore più nero di Roma.
Tratto dall’omonimo romanzo di Giancarlo De Cataldo e Carlo Bonini (anche autori della bellissima sceneggiatura insieme a Stefano Rulli e Sandro Petraglia) Suburra rappresenta con un realismo ostentato e privo di qualsivoglia coloritura morale una città eterna ormai totalmente asservita alle logiche della connivenza.
Quella di Sollima è una (ex) ‘grande bellezza’ in totale balìa dei nuovi poteri forti, bagnata da una pioggia perenne che, biblicamente, non può che annunciare l’arrivo di una qualche apocalisse.
Plumbeo de profundis di qualunque residuo di speranza sociale, non è affatto un caso che il film si apra su un politico che, nudo su un balcone che affaccia su Via della Conciliazione, piscia in strada, come a rivendicare il diritto di poter fare della città ciò che vuole senza pagarne alcun prezzo.
E’, in buona sostanza, il violento nichilismo di Gomorra – La serie che esce dai vicoli ciechi di Scampia e invade la Capitale con i suoi simboli del potere, primi tra tutti il Vaticano e Montecitorio.
Costruito come un crescendo di tensione a tratti insostenibile, Suburra è una perfetta sintesi di mestiere e pretese autoriali, con un Sollima autore di sequenze che si pensava impossibili da realizzare in un cinema così tanto compromesso dal politicamente corretto come quello italiano.
Basti pensare alla scena di sesso posta quasi in apertura del film (per trovare qualcosa di ugualmente esplicito bisogna andare a ritroso di almeno quarant’anni, a Il Boss di Fernando Di Leo) o alla sparatoria che vede coinvolti, in un centro commerciale, Numero 8 e il feroce clan degli Anacleti, zingari alla ricerca di un avanzamento nella scala gerarchica della criminalità romana.
Paradossale semmai che un regista nato e cresciuto in ambito televisivo lavori in maniera così radicale alla demolizione di quel trend che, negli ultimi vent’anni, ha voluto che qualsiasi rappresentazione del crimine venisse veicolata attraverso gli scialbi e inverosimili significanti delle fiction in prima serata su Canale 5.
In Suburra invece i criminali parlano esattamente come ci si aspetta che parlino nella realtà, senza esagerazioni deformanti né inutili scimmiottamenti dei bravi ragazzi di Scorsese.
Nel montaggio serrato e nelle calibratissime inquadrature di Sollima si respira il pericolo vero e la totale mancanza di vie di fuga che accomuna le parabole di tutti i suoi personaggi, oltre che un’idea di cinema altissima e lontana anni luce da tutto ciò a cui – Caligari a parte – siamo purtroppo abituati a vedere qui da noi.
Il film è impreziosito da un cast perfetto che aderisce al progetto con inusitata generosità, a partire da un Favino letteralmente immenso nel suo incarnare la bassezza più infima del potere, passando dallo sguardo invasato di Alessandro Borghi (ammirato di recente proprio in Non essere cattivo di Caligari) fino al laido PR interpretato da Germano.
Un elogio a parte, però, lo merita Claudio Amendola che, con il suo Samurai, riesce a scrollarsi di dosso in un sol colpo almeno un decennio di Cesaroni e di ospitate in TV ricordando(si) di essere un attore e, al contempo, arricchendo quello che – con buona pace di Garrone, Sorrentino e Moretti – va considerato come il miglior film italiano del 2015.
Voto 8
Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.
Stefano Sollima, maestro del cinema di genere, racconta abilmente una Roma mai così perversa e decadente.
Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
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