Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Giustamente in corsa per l’Oscar al Miglior Film Straniero a rappresentare la Francia (nonostante sia ambienato in Turchia, parlato in turco, con regista e attori turchi, è stato prodotto con capitali per lo più francesi) e già pellicola rivelazione della Quinzaine des réalisateurs del 68° Festival di Cannes, Mustang è uno di quei film di cui il cinema ha bisogno, e anche il mondo. Incredibile opera prima della giovane regista turca Deniz Gamze Ergüven racconta con tocco singolare e delicato una storia di soprusi, imposizioni prigionia ed emancipazione mancata.
Siamo in Anatolia, a circa mille chilometri da Istanbul, e l’estate è appena iniziata. In un piccolo e remoto villaggio rurale Lale e le sue quattro sorelle scatenano uno scandalo dalle conseguenze inattese per essersi messe a giocare con dei ragazzini tornando da scuola. Dopo la denuncia da parte dei vicini per il loro comportamento innocente ma percepito come scandaloso, le ragazze vedono il loro quotidiano trasformarsi radicalmente: la casa in cui vivono con la nonna e lo zio si trasforma un po’ alla volta in una prigione in cui i corsi di economia domestica prendono il posto della scuola. In una società ancora fortemente patriarcale in cui dominano rigore e bigottismo, le giovani, in un’età compresa tra i 12 e i 16 anni, vengono così private di ogni stimolo e impulso vitale e indotte ad accettare sommessamente il loro destino di spose infelici in matrimoni combinati dalle famiglie.
Noi spettatori veniamo invitati ad entrare nella storia seguendo il punto di vista di Lale, la più piccola e la più ribelle delle cinque sorelle. Attraverso i suoi occhi vispi e indomabili osserviamo il progressivo e graduale processo di rinuncia alla libertà da parte di ciascuna delle altre sorelle, che iniziano ad abbandonare quella casa “ormai diventata una fabbrica di spose”. E’ un po’ come se le Vergini suicide di Sofia Coppola si fossero momentaneamente spostate in Anatolia anche se la regista, sfruttando il punto di vista di Lale, allevia e mitiga quel senso di oppressione e di rassegnazione che altrimenti avrebbe pervaso la storia in ogni anfratto, spingendo molto anche sulla componente salvifica che il carattere ribelle e irriverente della ragazzina riesce ad apportare. Il ritmo è piuttosto sostenuto e in men che non si dica ci si ritrova dalla parte delle ragazze a indignarsi e a far uscire il lato progressista che è in noi.
Voto 7
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