Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Nell’ambito della fiction cinematografica, bisognerebbe imparare a diffidare della categorica, perentoria dicitura: “TRATTO DA UNA STORIA VERA”.
La questione si complica ulteriormente in presenza di un precedente documentaristico di prestigio, capace di neutralizzare con il potere dei fatti, con la schiettezza del resoconto e con la lucidità del distacco l’inganno della riproduzione finzionale. Se ne è avuta prova già solo quest’anno con il catastrofico piattume di Everest, più che pallida reminiscenza tanto formale quanto contenutistica dell’emozionante, immersivo mediometraggio in IMAX girato in loco quasi un ventennio fa, con la disonesta e avvelenata cronaca dello scandalo Wikileaks nel biopic Il quinto potere, assai lontana dalla trasparenza dell’analisi che ne trasse subito prima Alex Gibney nel suo reportage We Steal Secrets, o con il caso ancora più clamoroso dell’addomesticata rielaborazione che Werner Herzog fece del proprio saggio Little Dieter needs to fly nell’edulcorato artificio de L’alba della libertà.
Dopo l’esauriente ricostruzione di Man on Wire, immancabilmente ricompensata con l’Oscar, affrontare nuovamente la funambolica impresa di Philippe Petit, questa volta dentro i contorni di un’opera strettamente narrativa, poteva dunque suonare come una ridondanza, come la riproposizione aridamente spettacolarizzante e ad altezza di multisala di una possibile bomba da botteghino.
Pericolo scampato, per fortuna, visto che The Walk è in tutto e per tutto la vivace, esuberante e inventiva creatura di Robert Zemeckis, tornato, successivamente alla parentesi tradizionalista dell’ottimo Flight, alla scatenata foga sperimentale della sua fase creativa più luminosa, ma anche di quella più buia. Che si sia trattato dell’ancora insuperato pionierismo della tecnica mista di Chi ha incastrato Roger Rabbit?, della contaminazione vincente fra nostalgia e avvenirismo della trilogia di Ritorno al futuro o degli altalenanti e perlopiù lugubri recenti risultati con la motion capture, la quarantennale carriera del cineasta di Chicago ha continuato a svolgere, in misura ora più, ora meno evidente, un’imperterrita missione di ricerca e di studio sul mezzo filmico, mantenendosi sempre nei codici e nelle esigenze dell’industria commerciale.
Non fa eccezione, per l’appunto, The Walk, che anzi rappresenta il nuovo culmine di questa attitudine volta a individuare il lato più funzionale delle tecnologie del momento e a riconcepirlo in un discorso primariamente espressivo ed emotivo: il ricorso alla terza dimensione e al formato IMAX evolvono da banale trovatina prospettica a necessaria componente inalienabile del racconto, non più un elemento accessorio come surplus della mistificazione, ma un parametro essenziale e compartecipante all’insieme, esasperando le distanze e le vertigini, disobbedendo alla frontiera della quarta parete (l’immagine delle funi e delle cordicelle tese che oltrepassano lo schermo) e culminando nel climax della camminata nel vuoto fra le Twin Towers con un palpabile, autentico senso di sbalordimento e di identificazione.
Per garantire e accentuare l’effetto, inoltre, Zemeckis impiega a dovere il carisma discreto e la simpatia innata da ragazzo della porta accanto di Joseph Gordon-Levitt, protagonista indovinatissimo e straripante posto al centro di uno sparuto nucleo di bohémiennes, fobici, reietti o semplici fricchettoni – fra cui svetta il memorabile padre putativo interpretato da Ben Kingsley, declinazione in chiave malinconica del profilo del dottor Emmett Brown – tutti accomunati, indipendentemente dal ruolo, piccolo o grande, giocato nella folle iniziativa dell’equilibrista francese, da un unico intento, che è poi lo stesso di Zemeckis, ovvero un’accesa dimostrazione di fede e d’amore nei confronti dell’Arte come atto di eversione e di insofferenza all’autorità – le forze dell’ordine, le istituzioni, le convenzioni familiari – e dei limiti umani (il medesimo assunto che Everest non ha saputo sviluppare).
Ed è così che per arrivare al cimento vero e proprio, accorciato pure di una buona metà rispetto al suo reale svolgimento, Zemeckis ritorna all’irriverenza e alla mascalzonaggine dei suoi anni ’80, trasformando la sezione parigina iniziale in una fiaba romantica che pare uscita dalle pagine di Prévert e quella centrale dedicata alla preparazione del piano in uno scattante, scanzonato heist film in stile Topkapi che riporta al regista quella concezione del ritmo suo marchio di fabbrica che pure nei suoi progetti più riusciti aveva lasciato spazio, da Forrest Gump in avanti, a un cinema più ponderato e mansueto, che qui sembra fare capolino soltanto nella sequenza clou, con Petit sospeso in aria a conferire e a confrontarsi con l’assoluto e nelle elegiache reminiscenze conclusive di un mondo che non c’è più (come le stesse Torri Gemelle, cui viene reso omaggio nel modo più laconico e discreto possibile).
The Walk, in conclusione, è il coronamento della poetica tecnomagica di Robert Zemeckis, un esercizio di stupefazione che ristabilisce l’onnipotenza e l’onniveggenza dello sguardo cinematografico, qui più che mai ubiquo e imperscrutabile – a chi può appartenere plausibilmente, in fin dei conti, il molteplice punto di vista della “passeggiata” di Petit? -, un gioco di prestigio da cui lasciarsi incantare, catturare e prendere in giro.
Voto 8
Robert Zemeckis questa volta vola davvero alto, regalando un’esperienza cinematografica immersiva e multidimensionale.
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