Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Presentato In Concorso al 68° Festival di Cannes, il dramma sociale di Stéphane Brizé arriva nelle sale in un momento in cui i giornali titolano che la più lunga crisi economica dalla seconda metà del ‘900 ce la siamo ormai lasciata alle spalle, che i segnali di ripresa sono inequivocabili e bla bla bla. Sarà, ma a vedere quello che si trova ad affrontare Thierry (un gigantesco Vincent Lindon), cinquantenne disoccupato, che conosciamo nel suo percorso di reintegrazione lavorativa, ci fa ripiombare nella crisi più nera già dalla prima inquadratura. Con una famiglia alle spalle, un figlio disabile e intelligentissimo cui garantire un percorso di studi completo, un mutuo da pagare e il salario sociale da disoccupato che giunge al termine, l’uomo non lavora da venti mesi. Dopo essersi sottoposto a colloqui estenuanti, da l vivo e via Skype e aver seguito corsi di formazione del tutto inutili, trova posto come guardia di sicurezza in supermercato. La sua vita sembra prendere una piega migliore, fin quando si trova di fronte a un dilemma morale, perché gli viene chiesto di spiare colleghi e clienti, molti dei quali disperati come e più di lui.
Dopo Mademoiselle Chambon e A few hours of spring Vincent Lindon torna a lavorare con Stéphane Brizé e i tempi in cui appariva più sulle riviste di gossip che sul grande schermo sembrano davvero lontanissimi. Film piccolo dal budget quasi ridicolo (1,5 milioni di euro), soprattutto se paragonato alle mega produzioni hollywoodiane, La legge del mercato punta tutto sulla veridicità di una storia interpretata da attori non professionisti e su un unico professionista, un Lindon giustamente premiato a Cannes per la sua interpretazione, capace di annullarsi completamente e di rinascere dalle ceneri di un divismo mai tanto bieco e inutile, portando in scena un personaggio capace di silenzi strazianti. Senza mai cadere nel patetismo e nel sentimentalismo spiccio, il suo Thierry racconta un mondo in cui si è continuamente sotto osservazione, perennemente giudicati, valutati e soppesati in tutto.
Le luci al neon e le inquadrature strette, volutamente prive di respiro rendono perfettamente questo senso di oppressione, insieme a tutte quelle terminologie, situazioni e regole che disciplinano la ricerca di un lavoro e che fanno parte di un sistema che indirettamente autorizza l’aggressione psicologica ai danni del singolo, obbligandolo a scambiare dignità e moralità con un impiego che serva a garantirgli una qualche forma di sostentamento.
Il significato del titolo con cui il film è stato venduto sul mercato internazionale, The Measure of a Man (letteralmente La misura di un uomo), complementare rispetto a quello originale, appare allora come un elemento chiarificatore: la legge del mercato è quell’ordinamento che crea dei meccanismi attraverso i quali è possibile misurare il “valore” del singolo, non un valore assoluto, ma relativo al Sistema che ne mostrifica e annulla l ‘individualità. Brizé firma così la sua opera più raffinata e sensibile, che approfondisce i temi già illuminati dai Dardenne di Due giorni, una notte e che ha il raro pregio di osservare e riportare una realtà senza tentare di spiegarla, tantomeno di giustificarne i rituali mortiferi, guadagnandosi un posto d’onore sullo scaffale del cinema sociale più asciutto, laconico e imprescindibile.
Voto 7,5
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