Miss Julie

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Dopo La notte del piacere del 1951 di Alf Sjoberg, vincitore del Grand Prix al Festival di Cannes, e Miss Julie diretto nel 1999 da Mike Figgis, il terzo adattamento ciematografico dell’opera teatrale firmata da August Strindberg nel 1888 passa attravero lo sguardo dell’ultima musa di Ingmar Bergman, Liv Ullmann (Sofie, L’infedele). Alla sua sesta regia, l’attrice e regista norvegese riprende una piéce forte che gettò non poco scompiglio nella società conformista di fine Ottocento e che sottolinea la dimestichezza con cui Strindberg fosse in grado di mettere a nudo i meccanismi più violenti e controversi di una relazione a due. Rispetto all’opera originale con la vicenda ambientata in Svezia, terra di origine del drammaturgo, Liv Ullmann sposta il contesto in un’Irlanda apparentemente bucolica in cui i toni pastello si affiancano al rosso dei capelli della Chastain e al suo incarnato eburneo, facendola sembrare appena uscita da un dipinto preraffaellita.



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Siamo nell’estate del 1890 e durante la notte di S. Giovanni i festeggiamenti impazzano. In una grande casa di campagna, Miss Julie (Jessica Chastain), figlia di un ricco proprietario terriero, si ritrova al centro di una battaglia di classe e tra sessi quando inizia a giocare pericolosamente con John (Colin Farrell), il valletto del padre, cercando di sedurlo. I due si amano e si odiano sotto l’occhio attento e impotente di Kathleen (Samantha Morton), cuoca di famiglia e fidanzata di John. In una pellicola fedelissima alle tre unità aristoteliche, le dinamiche servo-padrone verranno affermate per essere poi improvvisamente ribaltate.

E’ un vero e proprio gioco al massacro, fisico e psicologico, quello a cui assistiamo che si svolge quasi interamente nella grande cucina della casa e che ci mostra come la forza dell’opera strindberghiana risieda principalmente nella dicotomia e nel conflitto presenti in ogni angolo della sua piéce più nota. In Miss Julie la lotta infatti è sociale (ricchi-poveri), di genere (uomo-donna) ed è anche umana (forza-debolezza) e la Ullmann ce la mette tutta per non perdere questo prezioso materiale, ma l’eccessiva impostazione teatrale rende la fruizione del film non facile, appesantendola in più di un pessaggio. Dal punto di vista filologico la regista è brava nel mantenere le sfumature e l’aggressività contenuta nell’opera originale e il suo tocco, intimista e introspettivo sviluppa efficacemente il tema dell’io governato da impulsi e contaddizioni tanto caro a Strindberg. La parte della regina, neanche a dirlo, tocca a Jessica Chastain, che ormai ha ben poco da dimostrare; perfetta anche Samantha Morton come spalla (la precog di Minority Report), nei panni di un personaggio particolarmente trasandato e soggiogato dagli eventi. A turbare gli equilibri in un cast composto da soli tre attori, ci pensa Colin Farrell che, nei lunghi e verbosi confronti di una sceneggiatura che non ha il coraggio di allontanarsi dal testo originale, non riesce proprio a tenere il passo con le sue talentuose colleghe, regalandoci un ritratto del valletto John inadeguato in più di un passaggio.

Voto 6

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Carolina Tocci

Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.

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