Mr. Holmes – Il mistero del caso irrisolto

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“I’ve spent much of my life outrunning the past, and now it floods all over me” – Demoni e dei



Archiviata la parentesi puramente alimentare del capitolo conclusivo della saga di Twilight e metabolizzato brutalmente il disastro de Il quinto potere, alla carriera altalenante e mai pienamente decollata di un onesto mestierante come Bill Condon serviva quanto mai urgentemente un impellente ritorno sui propri passi, un contesto più personale e congeniale rispetto alle prestazioni di mercenariato successive all’exploit di Dreamgirls.

In questo senso, Mr. Holmes – Il mistero del caso irrisolto altro non è che la riproposizione remissiva e conciliante dell’apparato del precedente Demoni e dei, complice la convergenza tanto tematica, dalla necessità della bugia come antidoto contro la banale miseria dei fatti alla riflessione sul binomio malattia/vecchiaia – già parole chiave della lettera d’addio di James Whale – quanto personaggistica, con la rassegnazione della senilità a confrontarsi con il richiamo della coscienza (la burbera governante che fu di Lynn Redgrave qui “reinterpretata” da Laura Linney), con il potere rinvigorente della gioventù (il risveglio dionisiaco provocato dall’attrazione per il prestante giardiniere interpretato da Brendan Fraser, qui traslato nell’innocua, zuccherosa confidenza transgenerazionale con il piccolo Roger) e, per estensione, con l’ombra di un passato che incombe ipocrita e posticcio a coprire verità inconfessate (la maschera meschina dello star system della Hollywood anni ’30 come la leggenda iconica edulcorata e fasulla alimentata dagli aggiustamenti e dagli abbellimenti delle cronache di Watson).

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A esplicitare ulteriormente il parallelo è la scelta di affidare nuovamente il ruolo a Ian McKellen, chiamato a impersonare un’insolita versione nonagenaria del detective londinese con la stessa cosmica desolazione che affliggeva il papà del Frankenstein della Universal. Ma il risultato, curioso sulla carta, si ferma ai buoni propositi: un conto è infatti il lavoro di decostruzione del genere e del mito come quello operato, per citare l’esempio più clamoroso ed efficace, da Robert Altman sul Marlowe de Il lungo addio, un altro è invece l’incapacità di coglierne l’essenza, riducendone le peculiarità alla semplice apparenza e al feticismo.

Al coraggio di rinunciare, con l’alibi dell’integrità filologica, agli elementi superficiali del personaggio (gli immancabili paraphernalia come la pipa e il berretto da cacciatore, a dire il vero quasi assenti nella pagina scritta) e al nutrito universo dei suoi comprimari (Watson e il fratello Mycroft sono presenze praticamente fantasmatiche) non fa eco un tratteggio sufficientemente forte da garantire l’identificazione del protagonista con la statura dell’eroe letterario.
Detto più semplicemente, nonostante il mestiere di McKellen, a mancare sono proprio la personalità e lo spirito dello stesso Holmes, gli elementi che hanno contribuito a distinguerlo da decine di suoi succedanei (e il fatto che il film, a differenza del romanzo di partenza, abbia bisogno di ribadirne l’identità nel titolo suona come l’esigenza di un guitto di terza categoria di annunciare il nome della celebrità che si appresta a imitare).

Colpa soprattutto dell’intreccio, spezzettato su tre piani temporali autonomi, lontanissimo dalle suggestioni e dalle atmosfere dei classici e tristemente vicino ai territori della fanfic (il “caso irrisolto” di cui si fa cenno, in particolare, sembra provenire dalle ghost stories di Henry James e non dai gialli di Doyle), preoccupato maggiormente di tirare le fila del racconto, con il solito trionfo del valore benefico della menzogna e un lieto fine che più rassicurante non si potrebbe, che non di delinearlo, rendendo Holmes nulla di più di un mero espediente narrativo senza il quale la storia perderebbe ogni motivo di interesse. In nome di un ecumenico “cinema della nonna”, Condon privilegia il lato piattamente umano delle vicende, mettendo al centro lo stracco tòpos della redenzione del vecchio fatalista ad opera della vitalità del bambino (aspetto reso ancor più molesto dalla caratterizzazione innaturale del dodicenne Milo Parkerchild actor di rara antipatia) e centellinando gli spunti più affascinanti, come l’episodio di puro metacinema in cui Holmes, già in pensione, scopre con sdegno i romanzatissimi adattamenti per il grande schermo delle sue precedenti avventure.

Spogliato tanto del mistero e della tensione della tradizione romanzesca quanto dell’intenzione di indagare in profondità nello scontro e nella coesistenza tra realtà e finzione, Mr. Holmes si accontenta di fluttuare in una docile dimensione da feel good movie bucolico che restituisce allo spettatore le stesse certezze che aveva all’inizio e che lo adagia nella più blanda, inoffensiva convenzione. Per una visione davvero radicale e demistificante dell’investigatore di Baker Street, più che alla riduzione fracassona di Guy Ritchie o all’inflazionata miniserie firmata BBC, consigliamo di rivolgersi al sottovalutato divertissement Senza indizio o, meglio, all’elegante malinconia di Vita privata di Sherlock Holmes di Billy Wilder.

Voto 4

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