Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
L’ultima invenzione di casa Pixar è come un fuoco che non si ravviva: indipendentemente da come si dispongano i ceppi, da quanta carbonella si adoperi o da quanto si possa insistere con l’attizzatoio, la fiamma resta bassa e spunta il dubbio che il problema fosse proprio a monte, in una legna troppo umida, tagliata a ciocchi più grossi del dovuto o non abbastanza lasciata a stagionare.
Vuoi per gli infiniti interventi di riscrittura protrattisi fino a produzione avanzata, vuoi per la sostituzione in corsa del regista, nonché ideatore stesso del soggetto, Bob Peterson (al timone di Up insieme a Pete Docter) con l’esordiente Peter Sohn, vuoi per una lavorazione a singhiozzo e significativamente tanto incostante sin dal principio da portare il progetto quasi a bussare alle porte del development hell – già ultima dimora del mai realizzato Newt -, Il viaggio di Arlo arriva in sala a neanche un semestre dal colpo di coda di Inside out e mette nuovamente gli studios, dopo il quinquennio buio post-Toy Story 3, in una situazione di incertezza identitaria che sembrava felicemente risolta. Il rocambolesco ritorno all’ovile del piccolo brontosauro del titolo, più che legarsi alla proverbiale inventiva dell’equipe di Lasseter e soci, qui limitata a una trovatina ucronica di relativa originalità, assomiglia a un bignami di motivi disneyiani abbondantemente collaudati e rimasticati, dall’incontro/scontro con le leggi di Natura de Il libro della giungla al trauma della crescita e alla scoperta della responsabilità de Il re leone, fino all’identificazione con l’Altro, qui acuita – e traslata oltre lo schermo – dall’idea di attribuire all’elemento umano, personificato dal bambino Spot, la componente bestiale e viceversa, di Koda fratello orso (basti soltanto il raffronto fra le due locandine).
A scuotere il canonico susseguirsi a tappe che pesca, come di consueto, tanto dal road movie quanto dal romanzo di formazione, con il logoro cliché della perdita ad aprire il percorso (interiore ed esteriore) di maturazione, di esperienza e di superamento, è piuttosto la scelta, peculiare ed eccentrica, di codificare il tutto secondo la grammatica dell’immaginario western, ripetendone la simbologia-chiave (la fattoria, la prateria, il bandito, il falò, la mandria, e via discorrendo) e individuando nell’ambientazione preistorica una sterminata terra selvaggia di frontiera in cui vige esclusivamente la regola della sopravvivenza, esercitata ora virtuosamente (la famiglia di tirannosauri rancheros, il cui patriarca, non a caso, vanta la voce di Sam Elliott), ora passivamente (lo stiracosauro eremita), ora prepotentemente (il clan di velociraptor ladri di bestiame, calco fin troppo evidente delle tre iene de Il re leone, e gli pterodattili desperados).
Se a funzionare è anche l’invenzione di una civiltà intelligentemente antropomorfizzata, pertanto più vicina alla crudezza di Alla ricerca della valle incantata che alle facezie de L’era glaciale – fatta eccezione giusto per un paio di sbavature, come gli intermezzi comici del whack-a-mole ante litteram o del pasto a base di funghetti psichedelici – e se il tono rimane coerentemente equilibrato, discreto e tarato sulla purezza essenziale dello sguardo infantile (senza, quindi, le inopportune svisate di registro di Brave), l’inventario dei personaggi si rivela forse il più debole e appena accennato dell’intera fauna pixariana, privo di quella complessità e di quell’anima conflittuale in grado di rendere indimenticabile ed empatizzabile persino il protagonista più irricevibile. Lo stesso arco evolutivo di Arlo non ambisce mai a quella gravitas e a quell’intensità che facevano di Alla ricerca di Nemo, suo film-gemello, una parabola coinvolgente e pienamente compiuta (tanto da far nutrire molte perplessità sull’imminente sequel).
Suonano altrettanto posticci e generici gli sprazzi di poesia, come il ricongiungimento onirico con il padre-guida e l’intuizione del campo di lucciole che invade il quadro, come il volo delle lanterne di Rapunzel, ulteriore dimostrazione di quanto questa volta sia poco bilanciata la miscela, usualmente miracolosa per le creazioni del team californiano, di lirismo e tecnica. Ineccepibile e, se possibile, ancor più raffinata del solito la confezione, capace di sfoggiare una colorita colonna sonora – firmata dai fratelli Danna, rarissima alternativa alla premiata ditta Newman-Giacchino – che spazia dall’Americana purissima con fiddle in primo piano al calderone di una world music cosmopolita dove spuntano bouzouki, mandolini e harpeleik, nonché di prodursi in strabilianti sfondi iperrealistici e in un tripudio panoramico memore dei capolavori di Ford e dei suoi contemporanei (Il cavaliere della valle solitaria di Stevens è in questo senso il riferimento più esplicito), al punto da fare a cazzotti con un character design eccessivamente virato su fisionomie smaccatamente cartoonesche.
Insomma, se Inside out ha mostrato dopo un lungo periodo interlocutorio il volto più fantasioso e modernista del mondo Pixar, Il viaggio di Arlo ne ha rivelato il profilo tradizionale e passatista, un’operazione che magari intendeva porsi come tributo al classicismo di un certo cinema (e di una certa animazione) che non c’è più, ma che finisce per essere soprattutto derivativa e, come sancisce un pre-finale kiplingiano che pare la negazione di quello di Ratatouille, vagamente, insospettabilmente reazionaria.
Ben poco da dire sul cortometraggio d’apertura Sanjay’s Super Team, con tutta probabilità l’episodio più esteticamente sgradevole e creativamente insulso di tutto l’universo Pixar.
Voto 6
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