Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Enrico Giusti (Valerio Mastandrea) fa uno strano lavoro.
Intermediario per una società che rileva aziende in crisi, avvicina gli eredi di grossi imperi finanziari e, dopo essersene guadagnato la fiducia, li convince della loro inadeguatezza e li spinge così a vendere tutto per ricominciare altrove, magari in Costa Rica.
Attraverso il suo ruolo, Enrico spera di riparare idealmente alle colpe del padre, fuggito anni prima dalle proprie responsabilità e mai più tornato indietro.
La tragica morte di una coppia di imprenditori trentini che lasciano due figli poco più che bambini alla guida dell’impresa familiare arriva a stravolgere un equilibrio fino ad allora perfetto, fatto di viaggi, stanze d’albergo e rapporti quasi del tutto privi di un reale coinvolgimento emotivo. Ad aggravare ulteriormente la situazione ci si mette anche una ragazza israeliana (Hadas Yaron) abbandonata dal fratello di Enrico senza troppe spiegazioni, che gli piomba in casa in maniera del tutto inaspettata.
Raccontare in due parole il nuovo film di Gianni Zanasi (A domani, Non pensarci) – presentato al Festival di Torino immediatamente prima della sua uscita in sala – è impresa tutt’altro che facile. Non tanto per la complessità di una trama che, in buona sostanza, si fonda sulle classiche variabili impazzite lasciate penetrare in un ordine altrimenti basato su forti schematismi per poi restare lì a osservare cosa accade, quanto per la particolarissima struttura narrativa adottata che, più che a uno script in senso stretto, sembra avvicinarsi a una di quelle partiture musicale in cui, come nel jazz fatto bene, la melodia principale rappresenta giusto un canovaccio su cui poi improvvisare ardite fughe strumentali.
Uno dei temi dominanti de La felicità è un sistema complesso è, guarda caso, proprio il concetto di “fuga”, intesa come scarto anche violento da un percorso fortemente predeterminato che l’autore ha la felice intuizione di non indirizzare neanche più di tanto, lasciando che a farlo siano le suggestioni dettate da elementi solo all’apparenza periferici.
In tal senso la scelta più radicale di Zanasi riguarda proprio l’uso fortemente diegetico di una colonna sonora che, piuttosto che limitarsi ad accompagnare le immagini, a tratti sembra quasi volerle sovrastare, come nelle lunghe sequenze in cui le canzoni sono chiamate a riempire tutto lo spazio lasciato vuoto dall’assenza dei dialoghi e che, solo uno sguardo superficiale, interpreterebbe come indice di poca sostanza.
La felicità è un sistema complesso – come già Non pensarci, ma in modo ancora più estremo – non si limita infatti a rappresentare la confusione mediante il racconto, ma si spinge fino a rendere volutamente confusa la sua stessa natura filmica, riuscendo allo stesso tempo nell’impresa di non soggiacere mai sotto il peso delle proprie ambizioni.
Anzi, il merito principale del regista (qui anche autore della sceneggiatura) risiede proprio nel modo gentile che ha di forzare gli insidiosissimi limiti della commedia italiana, come per controllare se, al di là di quei limiti, non ci sia qualcosa che magari valga la pena di mostrare.
Nel farlo Zanasi si prende anche i suoi bei rischi, soprattutto attraverso un protagonista, simpatico ma solo fino a un certo punto, verso il quale il processo empatico risulta perennemente frenato da qualcosa che lo stesso spettatore avrà difficoltà a definire.
Qualità della scrittura a parte un plauso va obbligatoriamente tributato a Valerio Mastandrea, abilissimo nel dosare gli elementi che connotano il suo personaggio senza svelarlo subito. L’attore romano, oltre a prodursi in una delle sue migliori interpretazioni in carriera, incarna il fulcro semantico attorno al quale ruota l’intero film e, in almeno in un paio di scene, stupisce per la piena maturità espressiva raggiunta, come quella in cui, ritrovandosi in casa la fidanzata del fratello, si produce in un balbettio imbarazzato che non può non riportare alla mente il miglior Massimo Troisi.
Girato benissimo e incorniciato da un’eleganza formale mai troppo compiaciuta di sé, La felicità è un sistema complesso rappresenta, in estrema sintesi, uno strano e affascinante oggetto che si ha quasi difficoltà a collocare nel panorama cinematografico italiano di oggi.
Perché sa essere politico senza né piangersi addosso né fare proclami, semplicemente mostrando le ferite aperte di un paese fatto per lo più di padri che scappano e di figli che invece restano e pagano quello che c’è da pagare.
E poi perché Zanasi si dimostra uno dei pochi autori disposti a fuggire (allo stesso modo in cui fugge il suo Enrico Giusti) da quel diktat che impone ad ogni personaggio che non sia inquadrabile sin dall’inizio come positivo di affrontare, per forza di cose, uno per uno tutti gli step di una parabola salvifica che lo porti a diventare “buono”, almeno entro i titoli di coda.
Il protagonista del film, invece, questo percorso si rifiuta di farlo, forse perché conscio che gli spostamenti non debbano essere per forza fatti tutti in avanti.
Il più delle volte capita infatti che ci si sposti di lato, quando non addirittura all’indietro. Più o meno come accade nella vita reale.
Voto 7,5
Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.
Film delicato e fuori dagli schemi, con un incredibile Valerio Mastandrea.
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