Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Pittsburgh. Greg Gaines (Thomas Mann) è un adolescente talentuoso ma assai carente sul piano dei rapporti sociali.
Basti dire che ha un solo vero amico, Earl (RJ Cyler) che lui si ostina a chiamare comunque solo “collega” per via dei film amatoriali che i due girano da anni ispirandosi ai principali capolavori della cinematografia mondiale.
Per il resto Greg è un maestro del basso profilo, un Holden Caulfield dei giorni nostri abilissimo nell’arte del passare inosservati con l’unico scopo di evitare ognuno dei possibili conflitti che possono celarsi tra i corridoi di una High School americana.
Il suo proposito di passare l’ultimo anno di liceo nel più totale anonimato sembrano però crollare quando sua madre lo obbliga a passare un po’ Quel fantastico peggior anno della mia vitadel suo tempo con la compagna di classe Rachel (Olivia Cooke) a cui è stato da poco diagnosticato un tumore. Il cinismo ostentato da Greg fino ad allora lentamente si scioglie per lasciare spazio a un’amicizia inaspettata e, sulla carta, impossibile e a una forma di dolore che non aveva neanche idea potesse esistere.
Alfonso Gomez-Rejon – l’inedito The Town That Dreaded Sunded e diversi episodi di American Horror Story al suo attivo – traduce in immagini l’omonimo romanzo young adult di Jesse Andrews, qui autore anche della sceneggiatura. Il risultato è questo piccolo capolavoro di coming of age che, mentre riflette su una scoperta amarissima a cui era già arrivato Gus Van Sant con L’amore che resta, e cioè che i concetti di morte e malattia non sono appannaggio esclusivo del mondo degli adulti, finisce con il dire in realtà molto di più.
Innanzitutto – ma questo è un evidente merito della sua matrice letteraria – evitando abilmente tutti i luoghi comuni in cui i film sugli adolescenti spesso (in realtà quasi sempre) incappano, per non parlare poi della morale ricattatoria alla base di tutto il filone dei cancer movie à la Colpa delle stelle.
Niente lacrime a comando, quindi, e nemmeno romanticismo a pioggia. Perché la morte, da qualsiasi lato la si giri, è un argomento pesante, quasi impossibile da alleggerire se non distogliendo lo sguardo.
Ed è proprio questo che Gomez-Rejon sceglie di fare, catalizzando l’attenzione dello spettatore verso altri punti dello schermo, così da fargli dimenticare, anche solo per un paio d’ore scarse, che nonostante la vita sia tutto ciò che abbiamo, ahinoi, se ne conosce già la fine.
Di suo il regista ci mette uno stile pieno di invenzioni visive, ideale punto d’incontro tra le geometriche fascinazioni hipster di Wes Anderson e la fantasia sfrenata del miglior Gondry.
Da qui prendono il via una serie di ellissi narrative che interrompono, in più di un’occasione, la corretta linearità del racconto, oltre a irresistibili citazioni cinefile (l’ossessione del giovane protagonista per Herzog) e fitti dialoghi pieni di quell’umorismo colto e un po’ snob che manda in brodo di giuggiole i lettori del New Yorker.
Non è affatto un caso che Quel fantastico peggior anno della mia vita (traduzione liberissima del ben più esplicativo Me, Earl & the Dying Girl) sia stato oggetto di così tante attenzioni durante l’ultima edizione di quella culla delle migliori declinazioni del cinema indie americano e non solo che è il Sundance. A questo si aggiunga poi una colonna sonora raffinata e mai invasiva a opera di Brian Eno (non proprio l’ultimo dei musicisti insomma) e un livello attoriale assolutamente al di sopra della media.
Non solo i giovani protagonisti Thomas Mann e Olivia Cooke, ma anche gli interpreti chiamati a rappresentare il versante più adulto della storia – primi tra tutti gli splendidi genitori di Greg Nick Offerman e Connie Britton – contribuiscono alla creazione di un mondo letterario in cui, a conti fatti, un po’ piacerebbe anche a noi vivere.
Tutti elementi che portano Quel fantastico peggior anno della mia vita ad essere, insieme a Noi siamo infinito di Stephen Chbosky, uno degli esempi più alti di cinema di formazione degli ultimi anni.
Ed è curioso come i due film convergano verso epiloghi tutto sommato simili, in cui c’è un giovane protagonista che scopre, allo stesso tempo, sia il dolore della perdita che la possibilità di continuare a conoscere qualcuno anche dopo che se n’è andato via.
Voto 7,5
Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.
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