Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Che differenza c’è tra abbandonare di quando in quando
la morale e non averne affatto? E dove corre la linea sottile che separa lealtà e tradimento? E quanto lontano possiamo andare nella giusta difesa dei nostri valori occidentali senza perderli lungo la strada?
John le Carré
Dopo Salvate il soldato Ryan, Prova a prendermi e The Terminal, Steven Spielberg e Tom Hanks rinnovano il loro sodalizio artistico in una spy story di stampo classico basata su una vicenda realmente accaduta in piena Guerra Fredda. Il ponte del titolo fa riferimento a una struttura realmente esistente a Berlino il Glienicker Brücke sopra il fiume Havel, che ai tempi della costruzione del muro fu soprannominato Il ponte delle spie per aver fatto spesso da teatro per lo scambio di prigionieri tra i servizi segreti americani e quelli della Germania Est. Nel febbraio del 1962 su quel ponte a fare da moneta tra i due blocchi, sarebbero saliti l’agente segreto russo Rudolf Iwanowitsch Abel (Mark Rylance) e l’aviatore statunitense Francis Gary Powers (Austin Stowell), abbattuto dai sovietici durante un volo non autorizzato sul territorio nemico. Per ultimare la negoziazione, la CIA si sarebbe poi rivolta a James Donovan (Tom Hanks), uomo “tutto d’un pezzo” e avvocato esperto in diritto assicurativo del tutto estraneo a questo genere di trattative.
Sullo sfondo di un’America atrofizzata dall’ossessione del complotto e della paura rossa, con lo spettro della distruzione nucleare a scandire i pensieri quotidiani dei cittadini comuni e una Berlino divenuta per metà avamposto contro il nemico sovietico e per metà territorio asservito al giogo di Stalin, Steven Spielberg confeziona un film pressoché perfetto, privo di sbavature, elegantemente tradizionale e solidissimo, capace di esaltare il coraggio dell’americano medio (un altro uomo della porta accanto magistralmente interpretato da Tom Hanks), senza svilire il valore e la dignità degli avversari. Come ne La talpa di Tomas Alfredson (quello sì, tratto da un romanzo di le Carré), anche qui l’idea della spia-macho sembra essere stata definitivamente accantonata in favore di agenti caratterizzati da visi qualunque, esseri assolutamente medi con una spiccata propensione alla fragilità e alla solitudine.
Conosciamo l’informatore Rudolf Abel (un Mark Rylance da Oscar) a inizio pellicola: lo seguiamo mentre dipinge se stesso guardandosi allo specchio, in uno degli incipit migliori del cinema degli ultimi anni. Il fatto che in quel momento il suo volto esista anche nello specchio e sulla tela su cui lo sta dipingendo è una perfetta metafora della doppiezza che caratterizza quelli come lui. Ma Rudolf non è come gli altri, è un antieroe prigioniero di un mondo a parte, dove il tradimento è sempre la regola e gli ideali si confondono sulla scacchiera del potere. Sembra un omuncolo sconfitto dagli eventi, costretto ad agire in una terra di nessuno, senza regole né ideologia: il suo rapporto con l’avvocato Donovan si costruisce con poche parole e molti fatti e tra i due si instaura una sorta di complicità e reciproco rispetto.
Con un ritmo tutto suo, Il ponte delle spie acquista intensità attraverso una serie di mosse e contromosse tipiche delle spy-story più riflessive che non fanno rimpiangere l’assenza di azione. Aiutato da una sceneggiatura a prova di bomba scritta a sei mani da Matt Charman e da Joel ed Ethan Coen e dalla fotografia di Janusz Kaminski (già Premio Oscar per Schindler’s List e Salvate il soldato Ryan), Spielberg è riuscito nel non facile intento di mostrare i rapporti di forza tra i due blocchi che hanno ridefinito i confini del mondo moderno attraverso gli occhi dell’uomo comune, in un’opera in cui il manicheismo è solo apparente e appartiene a chi detta le regole, mentre le sfumature restano appannaggio della gente comune. In una storia che rivaluta il valore del singolo individuo rispetto agli interessi di Stato, la logica dei due schieramenti con tutte le paure irrazionali e la cecità politica che si porta dietro, arriva quasi a dissolversi e a perdere di senso, lasciando spazio al ritorno alla quotidianità del “middle-class hero” senza macchia.
Voto 7,5
Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.
La Guerra Fredda secondo Steven Spielberg è un’intensa spy-story di stampo classico.
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