Francofonia – Il Louvre sotto occupazione

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Se ne era già avuta un’avvisaglia con la risonanza in tutto l’Occidente dell’affaire Leviathan, pellicola tanto ammirata fuori dai confini territoriali quanto apertamente osteggiata dalle alte sfere in patria: fra l’establishment moscovita e il cinema d’autore non corre buon sangue, a patto che il secondo, come ampiamente dimostrato dagli esempi di Fëdor Bondarchuk (l’hit colossale di Stalingrad) e di Nikita Mikhalkov (i sequel di Sole ingannatore e il recentissimo Solnechniy udar, orgogli filogovernativi da esportazione nonostante i clamorosi tonfi al botteghino), sia asservito interamente alla missione patriottica che guida, in un clima sempre più irrespirabile di diffidenza e di protezionismo, la Russia attuale.

Appare pertanto abbastanza emblematica l’identità dell’ultima fantasia di Aleksandr Sokurov, una produzione completamente appoggiata su capitali europei che però parla la lingua di Mosca, un atto di concordia, nell’atmosfera da neo-guerra fredda di oggi, che intende ribadire il primato dell’Arte su qualsiasi questione politica e su qualsiasi divisione interna, si tratti pure, come in questa circostanza, di un conflitto mondiale, sia esso passato o incombente.

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Non a caso Sokurov sceglie come punto nodale della narrazione l’operazione di recupero e di preservazione della collezione permanente (il cosiddetto Kunstschutz), patrocinata dall’allora direttore del museo Jacques Jaujard e dal conte tedesco Franz Wolff-Metternich, nemici per mere congiunture storiche uniti fraternamente dal fine comune di arginare e di limitare la barbarie della loro epoca, e, sorretto nuovamente, dopo Faust, dalle luci di Bruno Delbonnel e dal consueto, maniacale lavoro espressionista sul formato e sull’obiettivo, li inserisce e li confonde in un amalgama sfumato e distorto sospeso fra drammaturgia, poema visivo, installazione, film-saggio e cinema documentario nello stesso momento rigoroso e indisciplinato.

Più che presentarsi come un nuovo Arca Russa, quindi, Francofonia – Il Louvre sotto occupazione assomiglia più al discendente diretto della forma svincolata e sciolta di quelle elegie che per circa vent’anni hanno costituito le fondamenta liriche e dialettiche dell’universale e interattivo itinerario del cineasta di Irkutsk attraverso il Cosmo e il Tempo. Ritorna infatti il Viaggiatore (lo stesso regista, non più solo voce, ma anche profilo) di Elegia della traversata e del già citato Arca russa – ma i punti di convergenza con quest’ultimo, sostanzialmente, si esauriscono qui -, impegnato in un volo free-form crono-spaziale nella Francia dell’occupazione nazista che si estende a dismisura fino a diventare un inno globale alla fragile necessità della creazione artistica e al suo ruolo di testimone e protettrice della storia dell’Uomo oltre le avversità. Come la tempesta che si abbatte sulla nave da trasporto carica di dipinti e di sculture che fa da sfondo a un percorso disseminato di libere associazioni (il parallelo della Parigi sotto Hitler con la Leningrado sovietica) e di excursus immaginifici, con un bizzosissimo Bonaparte (Vincent Nemeth) a riconoscersi ossessivamente di tela in tela – Gioconda inclusa – e la Marianne, spirito della Rivoluzione (l’esordiente Johanna Korthals Altes), a declamare fantasmaticamente per le sale deserte del Louvre il motto repubblicano.

Se il linguaggio di Francofonia, insomma, è in tutto e per tutto quello delle meditazioni elegiache dell’autore di Madre e figlio, la sua natura riassume i caratteri base dell’appena conclusa Tetralogia del Potere (inaugurata da Moloch e chiusa da Faust) e ne rappresenta l’ideale appendice astratta e trascendente, un esorbitante assalto ai sensi e alla sensibilità dello spettatore che cattura la duplice, contraddittoria essenza dell’Arte come strumento di comando e di supremazia – quale fu effettivamente il Louvre sotto Napoleone (“perché mai avrei fatto la guerra, se non per l’Arte?) – ma, nella sua accezione pura, soprattutto come l’unica via per fuggire dall’immanenza (la sequenza straziante della mano che sfiora la statua).

Il risultato, poliedrico quanto il Godard del terzo periodo e paragonabile soltanto alla monumentalità del Mikhail Romm de Il fascismo ordinario, è un capolavoro cubista e sregolato che riporta in primo piano il pensiero di uno dei maggiori intellettuali del post-moderno, una dimessa, personalissima preghiera a flusso di coscienza dedicata ai fantasmi del contemporaneo che assume le proporzioni dell’opera-mondo e che fa lapidariamente calare il sipario sul Novecento, sulle sue vestigia, sui suoi errori e sull’idea di un Vecchio Continente – Russia compresa – unito nel profondo ma destinato a non conciliarsi mai.

Voto 9

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