Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Dopo la poco felice pellicola del 2013 con Ashton Kutcher nei panni del tycoon della Apple, subito archiviata e condannata alla naftalina e l’interessante documentario di Alex Gibney, Steve Jobs: The Man in the Machine, ci hanno pensato Danny Boyle (regia) e Aaron Sorkin (sceneggiatura) a mostrare agli spettatori un biopic diverso, atipico e per certi versi spiazzante su quel magnate dalle intuizioni d’oro e pioniere della rivoluzione digitale scomparso nel 2011 che rispondeva al nome di Steve Jobs. Tratto dal bestseller di Walter Isaacson, il libro più completo e accreditato tra tutti quelli dedicati alla vita del co-fondatore della Apple, il film ha un ritmo impressionante, scandito da dialoghi fulminei, brevi tregue che lasciano giusto il tempo di riprendere fiato e faccia a faccia improvvisi tra i protagonisti.
La presentazione del primo Macintosh, nel 1984, al De Anza Community College di Cupertino, in California; quella del computer cubico per la NeXT, avvenuta quattro anni dopo all’Opera House di San Francisco. E quella, trionfale, dell’ iMac, nel 1998, sempre a San Francisco. Veniamo invitati a seguire la vita e il pensiero di Steve Jobs (uno strepitoso Michael Fassbender) attraverso questi eventi, nel camerino del protagonista o nei corridoi dei teatri in cui stanno per verificarsi. Tutti sembrano voler parlare con lui prima che vada in scena, da sua figlia Lisa alla madre della piccola Chrisann Brennan (Katherine Waterston), da Steve Wozniak (Seth Rogen) al CEO Apple John Sculley (Jeff Daniels), personaggi che si presentano come tanti inconvenienti sotto forma di esseri umani, che di volta in volta tirano fuori un lato di Jobs, mostrando a chi guarda le sue innumerevoli facce.
Steve Jobs è un film freudiano e lo è per un motivo ben preciso: perché evidenzia le devastanti debolezze private di un uomo che nel pubblico veniva venerato da milioni di fan adoranti, proprio come una rockstar. Tentando di far luce sui motivi della sua proverbiale intrattabilità, incapace di superare il trauma della propria adozione e di conseguenza di stabilire un rapporto “normale” con la figlia Lisa, nata nel 1978 ma da lui riconosciuta solo otto anni più tardi, il Jobs di Boyle è il protagonista di un dramma in tre atti, in cui quello che viene mostrato non corrisponde alla verità storica e non lo pretende. Il regista Premio Oscar per The Millionaire stupisce per la sensibilità e l’intelligenza che dimostra nel “mettersi da parte” (connotando visivamente ognuna delle tre parti in cui il film è diviso quasi esclusivamente attraverso l’utilizzo di supporti diversi, il primo in 16mm il secondo in 35mm e il terzo in digitale) al servizio del cadenzato script di Aaron Sorkin (un vero mistero la sua mancata candidatura all’Oscar per questa sceneggiatura), che arriva a stordire chi guarda per mezzo di un tour de force di serratissimi botta e risposta. Con un copione del genere, per gli attori non deve essere stato semplice tenere il passo. Ma Fassbender dà prova ancora una volta della sua versatilità e ci presenta un iconico e inafferrabile Jobs, tanto affascinante quanto arido, tanto ambizioso e sfrontato quanto fragile e contraddittorio. Al suo fianco una strepitosa Kate Winslet nei panni della responsabile dell’ufficio marketing Joanna Hoffman e gli ottimi Seth Rogen e Jeff Daniels.
Il risultato è una tragedia in tre atti lontana anni luce dal teatro filmato che, nell’assumersi un rischio consistente nel portare avanti l’ambizione di ricostruire in modo bizzarro e non lineare la vita del tycoon di Cupertino, ne esce incredibilmente vincitrice.
Voto 7,5
Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.
Aaron Sorkin e Danny Boyle riscrivono le regole del biopic e si affidano al talento di Michael Fassbender.
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