Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Tanto nella sfera mainstream, con il poderoso uno-due messicano assestato alle ultime notti degli Oscar, quanto in ambito festivaliero, con l’assalto, nell’arco di un semestre, al palmarès di Berlino e di Venezia, l’incontenibile successo della produzione latinoamericana sembra avvalorare la profezia di Alberto Barbera sulla sua funzione di “locomotiva” nel panorama cinematografico mondiale: prospettiva confermata ora da una manifesta, lampante superiorità (il caso dei cileni El club ed El botón de nácar, rispettivamente Gran Premio della Giuria e Premio per la Sceneggiatura alla Berlinale, capolavori della selezione il cui destino distributivo italiano resta ancora avvolto nel mistero), ora da una più sistematica strategia geopolitica in grado di unire gli interessi di organizzatori, patrocinatori e realizzatori.
È in questa seconda circostanza, specie prendendo in esame la nutritissima concorrenza rimasta a secco, che ci sentiamo di collocare, oggi come allora, l’argentino El clan, consacrazione internazionale del quarantacinquenne Pablo Trapero, e, in particolare, il venezuelano Ti guardo (Desde allá), ultimi, discussi trionfatori del Lido cui gli esercenti nostrani hanno deciso di dedicare un piccolo spazio nei momenti più sonnacchiosi del calendario uscite.
Ed è una coincidenza quantomeno curiosa che a caratterizzare entrambi i film, per motivi antitetici, sia l’effetto incombente della figura paterna, soffocante nella sua onnipresenza nel primo e minacciosa nella sua assenza nel secondo, che si trasforma programmaticamente – come già suggerito dal titolo originale – in un saggio osservazionale sul distacco, sia esso generazionale, sociale o, per estensione, figurativo, con una messinscena interamente fondata sull’uso straniante e distorcente della profondità di campo e del fuori fuoco.
Con il sostegno di un nume tutelare come il romanziere Guillermo Arriaga, storico ex-collaboratore di Iñárritu, e nel solco del “realismo estremista” del produttore Michel Franco (torna in mente soprattutto quel Después de Lucia con cui si distinse a Cannes65), l’esordiente Lorenzo Vigas recupera i temi archetipici dell’infatuazione e del desiderio di possesso tratteggiando i meccanismi idiosincratici e disfunzionali della relazione fra un incanutito adescatore di adolescenti – l’ottimo Alfredo Castro, attore feticcio di Pablo Larraín, che ripropone un personaggio molto simile a quello di Post mortem e che comprova la sua eccezionale abilità di rendere umano il mostruoso e mostruoso l’umano – e il delinquentello dei sobborghi oggetto della sua ossessione (il ventenne Luis Silva, una rivelazione), esasperando le tappe delle dinamiche servo-padrone e i capovolgimenti gerarchici di un incontro/scontro fra opposti capaci di trovare un punto di convergenza soltanto nei loro traumi e nelle loro mancanze.
La Caracas di Vigas è quindi un agglomerato di miseria interclassista sorretta dal mercimonio e dal mantenimento delle distanze, come si evince dalla natura esclusivamente masturbatoria e scopofila dei rapporti fra il protagonista e i suoi ragazzi, una società a compartimenti stagni in cui la sola forma di interazione trascende nell’animalità e nella negazione di ogni coinvolgimento diretto, e ne è riprova un finale amarissimo solo apparentemente contraddittorio che fa scoppiare drasticamente la bolla del non-detto su cui poggia, a tratti con eccessiva autoindulgenza, l’equilibrio del film, abile a districarsi fra continui sovvertimenti di ruolo che paiono usciti da una pièce di Harold Pinter – chi fra i due amanti detiene davvero il potere sull’altro? -, senza redenzioni o conciliazioni di sorta, anzi, con una disperazione di fondo che si fa via via più insanabile e parossistica (con passaggi anche abbastanza forzati, come la risoluzione cruenta, quasi hitchcockiana del conflitto edipico).
Sarebbe sbagliato, insomma, considerare principalmente Ti guardo il ritratto sociologico che è soltanto in minima parte, e men che meno l’esempio di militanza LGBT per cui è stato erroneamente scambiato: si tratta piuttosto di un diligente studio di caratteri memore della lezione di Bresson, tanto interessante nelle suggestioni e nella confezione quanto fondamentalmente irrisolto e abbozzato nella sostanza, un’opera prima, viste pure le maestranze coinvolte – tanto da far sorgere sospetti su quanto marginale sia effettivamente stato il contributo di Arriaga – fin troppo sicura di sé dietro cui stenta ancora a delinearsi il profilo di un autore maturo e consapevole (dubbio che invece, i precedenti debutti gratificati dal Leone d’Oro, ossia Il ritorno di Zvyagintsev e Lebanon di Maoz, fugavano), una discreta promessa cui la luce dei riflettori della generosa acclamazione veneziana potrebbe finire per risultare un po’ intempestiva, se non addirittura controproducente.
Voto 6,5
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