Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Mabel Longhetti, protagonista di Una moglie di John Cassavetes, è la sintesi della condizione femminile nell’America degli anni ’70, una summa delle fragilità, delle contraddizioni e delle passioni che si nascondevano nel focolare domestico e nella quotidianità degradata del ceto medio-basso.
La Norma Rae di Martin Ritt è l’immagine di un sesso “debole” disposto ad abbracciare la militanza e a sconfiggere a carissimo prezzo l’ipocrisia delle convenzioni gerarchico-patriarcali.
Si potrebbe andare ancora avanti con le 3 donne di Altman, con la donna tutta sola di Mazursky e per certi versi anche con la ragazza di Nashville di Apted, tutti prototipi di un’irredenta, indomabile coscienza di genere e di classe proiettata verso la conquista della propria autonomia e della propria autodeterminazione.
Joy Mangano, invece, è la piccola imprenditrice della periferia newyorkese che inventò il mocio per pavimenti e che, complici i miracoli del consumismo, è oggi la regina incontrastata delle televendite e l’onnipotente matriarca di un impero economico multimilionario.
Non serve aggiungere altro per rendersi conto delle differenze sintomatiche che, nell’immaginario cinematografico statunitense, separano le eroine di ieri da quelle di adesso, l’urgenza artistica e morale della Nuova Hollywood dall’inconsistenza e dalla sterilità di una superficiale, confortante ode alla logica di impresa come Joy, nuovo atto di cinismo con cui David O. Russell, dopo l’uscita in sordina del disastro disconosciuto Accidental Love, continua a piegare formule, stilemi e canoni della produzione indipendente che fu al semplicismo rassicurante del cinema di consumo.
Come nel tripudio populista di The Fighter e nella ruffianeria rom-com de Il lato positivo, Russell si aggira tra le pieghe abbruttite della suburbia e le dinamiche alienanti della famiglia disfunzionale facendovi emergere la solita, vetusta, incoraggiante lezione sull’infallibilità del Sogno Americano e sul conseguimento del successo, una parabola monodimensionale e ai limiti dell’agiografia che non fa segreto del proprio intento autocelebrativo (coproduce, in fondo, la stessa Mangano) e che si esaurisce infelicemente in uno spudorata dimostrazione di narcisismo.
A patirne è soprattutto l’equilibrio stesso del film, tanto esagitatamente eccentrico nel primo atto, ricco di spunti appena abbozzati (la superflua voce-off della nonna [Diane Ladd], le prolessi pseudo-fiabesche, le visioni della madre teledipendente [Virginia Madsen]), quanto pedestremente tradizionale nel secondo, catalogo standard di scene madri (la sfuriata liberatoria, il funerale, l’arresto) e di avversità a valanga risolte con programmatica, edulcorata disinvoltura (esemplari, in questo senso, la sequenza del debutto su piccolo schermo e l’anticlimatico duello verbale del pre-finale texano).
Aleggiano su tutto una mancanza di controllo e una presunzione capaci di ripercuotersi nelle scelte più elementari, a cominciare da una generica e diffusa indeterminatezza (si tratta di una commedia totalmente priva di umorismo o di un dramma senza tensione?) e dal vezzo di insistere capricciosamente sui propri attori-feticcio, col risultato di imprigionare l’esuberanza di Jennifer Lawrence, mai così fuori parte, in un ruolo da trentacinquenne sfiorita e sfiduciata che proprio non le si addice, mentre il resto del cast fa quello che può, mortificato da ruoli drammaturgicamente dozzinali, dalla sorellastra-arpia Elisabeth Rohm all’amica del cuore Dascha Polanco, fino al padre maneggione Robert De Niro – insospettabilmente dignitoso -, con la piacevole eccezione di una squinternata, stregonesca Isabella Rossellini a rubare la scena.
Se nel vacuo divertissement di American Hustle, però, ogni pretestuosa ambizione sociologica veniva sommersa dal suo contagioso tono ruspante, in Joy non si evincono né le decisive, determinanti coordinate storiche degli eventi (l’anno è il 1989, gli ultimi colpi del reaganismo e i primi passi del business via cavo), né la necessità di empatizzare per una storia tanto irrilevante e per un personaggio dietro cui si fa davvero fatica a scorgere quelle “donne coraggiose” cui il film, come sancito aforisticamente dai titoli di testa, sarebbe ispirato e dedicato.
E così, molti spunti di interesse, dall’idea di raccontare con l’impianto del cinema civile la trivialità del commercio a quella di far convergere il kitsch delle onnipresenti soap opera a quello della vita reale, si spengono di fronte alla banale esigenza di onorare acriticamente il trionfo di una qualsiasi Cenerentola del capitalismo, riassumendo il tutto in quella gratuita chiusura del cerchio in flashforward, con una Joy più matura a benedire dal suo scranno una sua potenziale epigona, e in quella leziosa, vittoriosa falcata con tanto di sguardo in camera con cui Russell si conferma il più intangibile e sciatto cantore dell’american way of life.
Voto 4.5
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