Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Negli anni Quaranta Dalton Trumbo (Bryan Cranston) è lo sceneggiatore più pagato a Hollywood e scrive i testi per quelli che oggi definiremmo dei blockbuster. Ma nonostante la fama, lo scrittore non rinuncia a una marcata sensibilità sociale e politica che lo porta ad essere sempre in prima fila quando si tratta di manifestare per il riconoscimento dei diritti civili e la parità di retribuzione.
E’ inoltre iscritto al Partito Comunista, un particolare che non sfugge al Comitato per le Attività Antiamericane, l’organo che nel secondo dopoguerra si occupa di debellare qualsiasi minaccia di influenze rosse sul suolo americano.
Quando, dietro segnalazione della potente giornalista anticomunista Hedda Hopper (Helen Mirren), viene interrogato sulle sue opinioni politiche, Trumbo si rifiuta di rispondere e per questo viene prima arrestato e poi messo in condizione di non poter firmare sceneggiature con il proprio nome. Le major hollywoodiane hanno infatti troppa paura di essere associate a lui, considerato ormai un estremista e quindi “persona non grata”. L’autore non si perde d’animo e inizia a scrivere film a bassissimo costo sotto pseudonimo pur di riuscire a mantenere la famiglia.
Non è la prima volta che il cinema prova a fare i conti con quella che, a tutt’oggi va considerata come una delle pagine più buie della sua storia: il periodo del maccartismo, della cosiddetta “caccia alle streghe” e delle liste nere. Ne sono alcuni esempi Il prestanome di Martin Ritt, Indiziato di reato di Irwin Winkler e il bellissimo Good Night and Good Luck di George Clooney; tutte opere basate su fatti realmente accaduti, proprio come la storia dello sceneggiatore di Vacanze romane.
La parabola di Dalton Trumbo però, proposta al cinema oggi, nel pieno di un climax di paranoia diffusa per un nemico X che ci fa comodo collocare idealmente in Medio Oriente, acquista, se possibile, una valenza diversa e di maggiore impatto simbolico.
Perché è parte di un processo di profonda rielaborazione della Storia degli Stati Uniti teso a dimostrare come spesso i demoni peggiori non siano arrivati da fuori ma nati e sviluppati all’interno dei suoi stessi confini nazionali.
La tesi è più o meno la medesima, sebbene inserita in un contesto differente, proposta del recente La grande scommessa ed è curiosa la circostanza che vuole che, a dirigere questi due film, siano registi come Adam McKay e Jay Roach, solitamente dediti a una forma di commedia priva di risvolti impegnati.
Laddove però, nel caso di McKay, la devastazione economica di un sistema finanziario considerato per decenni inattaccabile partorisce un gioiello di inventiva linguistica, Roach risolve la faccenda firmando un compitino elegante e impeccabile da un punto di vista formale che però sembra non far nulla per spostarsi, anche un minimo, dalla pura didascalia. L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo si mostra infatti fin da subito come il più classico dei biopic, dotato quindi dell’intelligibilità immediata garantita da un flusso narrativo che procede fluido e diacronico dall’inizio alla fine, ma anche della mancanza di originalità e di possibili derive di senso che pure l’argomento avrebbe consentito.
Il film sembra invece poggiare interamente su due sole assi portanti. La prima è una ricostruzione della Hollywood dei tempi d’oro impeccabile, con una caratterizzazione minuziosa di alcuni personaggi-chiave dell’epoca come John Wayne, Ronald Reagan, Kirk Douglas e Edward G.Robinson qui interpretato da un ottimo Michael Stuhlbarg. Lo stesso lavoro di cesello si nota poi nella riproposizione di intere sequenza di film classici (Vacanze romane e Spartacus soprattutto) corroborate in maniera impercettibile da innesti moderni.
Peccato solo che l’aspetto professionale della vita di Trumbo venga spesso messo in secondo piano da una regia molto più attenta agli scompensi umani e familiari che l’ostracismo subìto portò nella vita dello scrittore.
E qui veniamo al secondo punto di forza del film, ossia l’interpretazione magistrale di un Bryan Cranston che, a più di due anni dall’ultima stagione di Breaking Bad, ha finalmente l’opportunità di riversare anche sul grande schermo il suo immenso talento. Il suo Dalton Trumbo è una lezione di mimesi e di misura, applicata soprattutto nel non sfociare mai nel macchiettistico. In questo l’attore sembra quasi lavorare in direzione contraria al film che sta interpretando.
Il risultato è infatti un personaggio che lo script vorrebbe eroe unidimensionale, intriso di valori da portare avanti fino all’autolesionismo, e che invece la bravura di Cranston dissemina di piccoli segnali antitetici a quell’idealtipo, dal suo essere un padre sostanzialmente assente alla sua debolezza verso alcol, pasticche e denaro.
Per dire che, anche qualora volessimo tralasciare la nobiltà del tema trattato, L’ultima parola andrebbe visto già solo per la sua interpretazione, giustamente candidata all’Oscar come Migliore Attore Protagonista.
NdR: A 66 anni Dalton Trumbo fece il suo esordio alla regia con un film tratto da un suo romanzo: …e Johnny prese il fucile. E’ un film contro la guerra, uno dei più belli e struggenti che siano mai stati realizzati sull’argomento. Il consiglio del cinefilo è di recuperarlo al più presto. Magari subito dopo la visione di questo film.
Voto 6
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