Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Dopo la superba prova data da Tom Hooper con Les Misérables, ancor più che con Il discorso del Re, ci troviamo a storcere un po’ la bocca nel constatare che il regista inglese questa volta ha diretto un’opera con poco piglio e scarsa personalità, soprattutto se confrontata con il materiale di partenza, in grado di saziare solo quell’appagamento estetico per cui ha ampiamente dimostrato di essere maestro.
Siamo nel 1926 e Copenhagen sembra una cartolina all’interno della quale prendono vita Einar (Eddie Redmayne)e Gerda Wegener (Alicia Vikander), due giovani pittori uniti dall’amore per l’arte e dall’entusiasmo con cui vivono il loro matrimonio. Le cose cambiano quando Einar acconsente a una richiesta di Gerda, che gli chiede di posare per un ritratto di una ballerina (Amber Heard) indossando abiti da donna. Da quel momento un altro “sé” femminile inizia violentemente a impossessarsi di Einar e a condurlo verso un cambiamento d’identità irreversibile. Einar svanirà lasciando il posto a Lili, la donna che da sempre è stata prigioniera del suo corpo.
Regista da sempre attento al dettaglio (le sue raffinate operazioni televisive prima dell’approdo al cinema Elizabeth I, Longford e John Adams, ne sono un perfetto esempio) Tom Hooper si è lanciato nella trasposizione del romanzo scritto nel 2000 da David Ebershoff conferendo corpo e sostanza alla propria personale idea di cinema: messa in scena sontuosa, ambienti impeccabili, costumi e scenografie inappuntabili. Quello che viene lasciato in secondo piano, in The Danish Girl, è la psicologia del primo transgender della storia ad aver preso coscienza di sé e ad aver deciso di sottoporsi a una serie di operazioni chirurgiche per la riassegnazione del genere cui sapeva di non appartenere. Come è possibile che a Einar non sia mai venuto un dubbio, un pensiero, sul suo sentirsi inadeguato, se non quando accosta al suo corpo un abito femminile? Può una scoperta del genere essere affidata alla casualità? Certo, nello script viene inserito un evento nel passato del pittore, l’amicizia sui generis con Hans (Matthias Schoenaerts), che avrebbe dovuto servire da campanello d’allarme, ma che nei fatti poi non sembra turbare affatto la sua vita matrimoniale con Gerda, almeno fino a quel momento fatale in cui posa per lei in abiti femminili.
Scelta rassicurante, quella di Hooper che alle prese con una storia di una potenza fisica ed emotiva devastante, sceglie di confezionare un film che viene solo sfiorato dal dolore e dalla corporeità. Lontano anni luce da una Princesa deandreiana, Eddie Redmayne è un Einar composto, delicato e femmineo, ma nei panni di Lili diventa un concentrato di mossette e sorrisi improvvisi che fanno rimpiangere il Cillian Murphy di Breakfast on Pluto, la Felicity Huffmann di Transamerica o il Jared Leto di Dallas Buyers Club. La vera rivelazione di The Danish Girl non va cercata tra i merletti del(la) protagonista, ma nelle espressioni e negli sguardi ben più spartani di colei che segue da vicino il trambusto emotivo di quello che una volta era suo marito. E’ la Gerda di Alicia Vikander il personaggio portante, il pilastro su cui si poggia l’intera vicenda, quella raccontata nel film e quella personale di Einar/Lili. Risoluta, indipendente e rassegnata davanti alla decisione presa dal compagno, ne diventa l’amica fidata, la confidente, pur di rimanergli accanto. Perfetta l’attrice svedese (già apprezzata nel notevole Ex Machina e giustamente candidata all’Oscar per questo ruolo), abilissima nel lavorare di sottrazione e nel conferire un’autenticità spiazzante a un personaggio che si muove e soffre (lei sì che soffre) in un mondo dominato da tenui colori pastello.
Voto 5
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