Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
All’interno della redazione del Boston Globe c’è una squadra di giornalisti investigativi, la “Spotlight” che ha il compito di approfondire temi e notizie particolarmente scottanti. Nell’estate del 2001 arriva al Globe un nuovo direttore da Miami e incarica il team di indagare sul possibile insabbiamento, da parte degli alti gradi della Chiesa, degli abusi sessuali perpetrati da un sacerdote ai danni di alcuni minori.
Il caporedattore Walter “Robby” Robinson (Michael Keaton) e i cronisti Sacha Pfeifer (Rachel McAdams) e Michael Rezendes (Mark Ruffalo) si mettono quindi al lavoro e cominciano a indagare sul caso con la consapevolezza di andare a toccare poteri molto forti, in una diocesi particolarmente importante come quella di Boston. Mentre il team si scontra con la reticenza di chi, pur avendo visto, ha preferito voltarsi da un’altra parte, iniziano a delinearsi i contorni di un fenomeno molto più esteso di quanto era lecito immaginare.
Forte delle sue sei importanti nomination agli Oscar (tra cui quelle per Miglior Film e Regia) arriva finalmente in sala la pellicola che aveva già stregato critica e pubblico all’ultimo Festival di Venezia. Cinema d’inchiesta allo stato puro, che sa prendersi i giusti tempi del racconto senza alzare mai la voce o sbattere con violenza in faccia allo spettatore verità troppo scomode, descrivendo invece in modo assai realistico il minuzioso lavoro e il forte senso di sacrificio con cui taluni “ultimi dei mohicani” continuano a vivere il mestiere di giornalista.
Il caso Spotlight si inserisce così nel solco tracciato alla fine degli anni Settanta da Alan J. Pakula con il suo archetipico capolavoro Tutti gli uomini del presidente. Lo fa principalmente prescindendo dalla natura di ciò che è oggetto dell’inchiesta – anzi, dandola quasi per scontata – per concentrarsi invece sui complicati e spesso delicatissimi meccanismi che portano alla costruzione di una notizia. E’ un film che parla quindi di etica professionale prima ancora che di morale tout court, e che ha il raro merito di restituire allo spettatore una realtà non divisa in maniera inutilmente manichea in buoni e cattivi (non è affatto un caso che nessuno dei giornalisti venga descritto come un eroe) ma dove il dubbio su cosa sia giusto fare e, soprattutto, in quale misura, risulta ben più rilevante dell’ovvia condanna verso qualcosa che in ogni caso è impossibile da pensare, figuriamoci legittimare.
Una volta chiarito come Il caso Spotlight non possa in alcun modo essere definito un pamphlet, il concetto più utile a connotarlo è quello di sottrazione, intesa sia come economia semantica che consente alla storia di non deragliare mai dalle coordinate che si autoimpone fin dalle sue prime scene, sia come precisa scelta stilistica con cui Thomas McCarthy (autore, nel 2007, del pregevole L’ospite inatteso) limita al minimo ogni intervento registico forte per seguire con eleganza e discrezione lo sfiancante percorso che conduce alla verità.
Lo stesso discorso va fatto per gli attori coinvolti, uno più generoso dell’altro nell’evitare qualsiasi velleità da protagonista in nome del gioco di squadra in maniera non dissimile da quanto fanno i loro alter ego sullo schermo.
A un Michael Keaton praticamente perfetto, alla prima prova dopo la rinascita artistica dello scorso anno in Birdman, si affiancano una Rachel McAdams molto più convincente del solito e quell’autentico concentrato di misura e maestria che è ormai Mark Ruffalo, giustamente candidato all’Oscar come Miglior Attore Non Protagonista.
Tutto insomma in questo film lavora in maniera armonica per garantire sobrietà e scorrevolezza a un risultato finale che è un capolavoro di equilibrio, talmente onesto nel suo impianto strutturale da non essere suscettibile di scandalizzare nessuno, forse nemmeno i più oltranzisti tra i difensori del clero.
Ed è curiosa la coincidenza che vuole che due film come Il caso Spotlight e il bellissimo e doloroso Il club di Pablo Larrain, profondamente diversi sebbene legati a doppio nodo dallo stesso spinoso tema, escano in Italia quasi contemporaneamente.
Alla faccia di qualsiasi Family Day.
Voto 8
Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.
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