Kung Fu Panda 3

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Se oggi il cinema d’intrattenimento in carne e ossa si è piegato in via definitiva al linguaggio seriale del piccolo schermo, sventolando bandiera bianca di fronte a un pubblico sempre più abituato alla semplificazione televisiva e trovando i suoi campioni d’incasso quasi esclusivamente nell’ambito del franchise, era soltanto questione di tempo prima che il mondo dell’animazione occidentale si adeguasse al cambiamento, uscendo dal fallimentare limbo direct-to-video  il pensiero va purtroppo alla micidiale raffica di sequel Disney del decennio scorso – per concentrare le forze principalmente sui prodotti per le sale. Meno opere autonome, insomma, e un numero di anno in anno maggiore di progetti da considerare in successione, esperimenti da concepire già sulla lunga distanza, verso un repertorio non più di film a loro stanti, ma di veri e propri episodi.



E se un imminente corso all’insegna della ripetizione sembra essere diventato, nonostante gli incidenti di percorso di Cars 2 e di Monsters University, l’obiettivo prioritario persino di un esempio di integrità come la Pixar, per le minori pretese autoriali dei rivali della Blue Sky, della Illumination e, ancor più, della Dreamworks è un discorso già collaudato e fondativo, responsabile di saghe in debito di ossigeno (quella in inarrestabile declino de L’era glaciale o quella dal fiato corto di Shrek), o incerte sulle loro possibilità di rinnovamento (Madagascar e Cattivissimo me, spin-off inclusi), premiate senza distinzioni dalla generosa accoglienza dela platea.

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Pur senza raggiungere gli apici formali del ciclo di Dragon Trainer (comunque derivato da una sorgente letteraria, e in quanto tale più disciplinato e oculato nella propria suddivisione in puntate), la trilogia di Kung Fu Panda rappresenta una delle espressioni più autentiche e genuine dell’operato degli studios di Jeffrey Katzenberg, un divertissement godibile per tutta la famiglia nobilitato da una resa estetica che non sfocia nella sofisticheria e da una leggerezza di fondo che non trascende nel becerume, un connubio azzeccatissimo di caratterizzazioni e morali elementari che hanno conquistato l’empatia di grandi e piccini (si pensi solo al tema centrale dell’adozione) e di suggestioni audiovisive di grande raffinatezza, dalla composizione di un pot-pourri di iconografia orientale forse inaccurato, ma di ammirevole sintesi, al maestoso e aderente apporto musicale di Hans Zimmer e di John Powell – senza contare certi squisiti tocchi di classe, come le indimenticabili digressioni in 2D dei flashback.

Questo terzo capitolo, smorzando i toni cupi e lo scavo introspettivo del precedente, ripristina il clima giocondo e scanzonato del capostipite, puntando molto meno sul colpo di scena e sull’afflato drammatico per indugiare su atmosfere più rasserenanti e pacificate, sciogliendo con (fin troppa) spigliatezza il nodo problematico che affliggeva il panda Po, restituendogli la figura paterna e il clan di appartenenza in apparenza perduti. È l’occasione per gli “storici” sceneggiatori Jonathan Aibel e Glenn Berger per approfondire ulteriormente e risolvere la questione identitaria alla base dell’assunto di partenza, con l’affermazione di un protagonista che è innanzitutto figlio paritario e indiscriminato di due culture estremamente distanti, tenute insieme dall’amore per ciò che, per natura e per formazione, hanno contribuito a creare, un aspetto da sempre piuttosto comune per l’immaginario fiabesco infantile che, perlomeno da noi, tanto i più retrivi fustigatori del costume quanto gli analisti più radicali e smaliziati hanno voluto ricondurre al coevo dibattito sul riconoscimento delle unioni civili.

E nonostante alcune frasi suonino inoppugnabili – “ora Po ha bisogno di tutti e due i suoi papà” – il sodalizio che stabilisce il punto di rottura con il resto della serie, modificando sensibilmente certi elementi del racconto, è un altro: Kung Fu Panda 3 è infatti la prima co-produzione sino-americana della storia del lungometraggio animato e il tentativo, evidentemente riuscito, vista l’apertura da record al botteghino locale, con cui la Dreamworks apre al mercato cinese, che ha significativamente distribuito il film, seppur in copie limitate, con una settimana di anticipo rispetto agli Stati Uniti.

Alla luce di ciò, Po prende coscienza di sé come frutto dell’incontro fra la propria civiltà di appartenenza (l’Oriente/Li Shan) e quella putativa (l’Occidente/Mr. Ping), e il risultato è una pellicola maggiormente calibrata sulla sensibilità figurativa e narrativa del pubblico asiatico. Ne viene fuori un intreccio assai più conciliante dal quale, se si eccettua quella dell’antagonista di turno già comunque incorporeo – lo spirito guerriero Kai – è, contrariamente a prima, del tutto assente la morte, e nel quale, in confronto all’impostazione da training movie del primo episodio e a quella da pura avventura del secondo, prevale un andamento più lasco e disteso, incentrato soprattutto sulla routine quotidiana della comunità dei panda e sulla definizione dei nuovi personaggi, nessuno dei quali, dalla ballerina Mei Mei, che nelle fasi iniziali di scrittura era stata pensata come la sposa promessa di Po per poi venire ridotta a un ruolo pressoché ininfluente ai fini della trama, allo stesso padre biologico Li Shan, particolarmente eccezionale, e tutti contraddistinti appena dalla loro, a tratti anche insistita, leziosità.

E se il film finisce per perdere in intensità, scegliendo ogni volta le soluzioni più rassicuranti, e in memorabilità, con i Cinque Cicloni a fare perlopiù da tappezzeria, il divertimento non cala praticamente mai – davvero spassosa la sequenza della baldoria iconoclasta nel Palazzo di Giada, ma pure l’epica difesa del villaggio è un fuoco di fila di gag fisiche  – e il piacere per gli occhi, specie nella cura degli ambienti, resta immutato (davvero pregevole, in questo senso, lo scontro finale nell’aldilà, fra scenografie impossibili e astrazioni cromatiche.

In conclusione, Kung Fu Panda 3 gioca sul sicuro, tasta il terreno e rimanda a un futuro di seguiti – per ora tre – già lungimirantemente annunciati il vero cambio di rotta del franchise, accontentandosi di essere, in contemporanea all’ottimo Zootropolis, un prezioso, innocente e coloratissimo antidoto ad altezza di bambino alla barbarie che lo circonda.
E, vista la situazione, non è poco.

Voto 6

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